di Davide Simone

Secondo il politologo, studioso di comunicazione e accademico australiano John Hartley, la rete, e specialmente i social, hanno dato all' "uomo comune" la possibilità di fare satira, di irridere l'establishment e i partiti in modo efficace, secondo prerogative, spazi e margini un tempo riservati ai soli "addetti ai lavori" (vignettisti, comici, ecc)."Silly citizenship", "cittadinanza sciocca", così Harley ha ribattezzato questa nuova frontiera della comunicazione, del rapporto tra cittadino e potere. "Silly Citizenship" che a sua vola si lega all' "irreverent internet" , entra in contatto con il "politainment on line" e si snoda attraverso meme, articoli rielaborati in chiave farsesca, post, fotografie alterate, ecc.Per diversi studiosi, come ad esempio Davis, Killen e Love, il fenomeno è positivo e benefico, in quanto:-gioca una parte importante nella comunicazione politica sui social media-è un veicolo per un discorso politico serio e per una partecipazione politic effettiva-è usato ampiamente per decostruire e dividere, ma ha anche ampie valenze pro-attive-non evidenzia particolari difformità di stile – e di eseguibilità – tra i sostenitori di un partito e quelli della parte oppostaTra le sue incognite c'è tuttavia, a nostro avviso, il cosiddetto "slacktivism", un "attivismo pigro" o "per fannulloni" che si auto-soddisfa con il solo agire on-line (mettere un like, postare un contenuto in bacheca, ecc), evitando la partecipazione sul campo. Il cittadino digitale può dunque alienarsi, scollegarsi dalla realtà della politica vera e propria e della sua stessa comunità sociale.A volte, come nel caso del Covid-19, la "Silly Citizenship" diviene anche una valvola di sfogo, per esorcizzare paure e tensioni individuali ed emotive.

Riferimeni bibliografici:"La politica pop online. I meme e le nuove sfide della comunicazione politica", Mazzoleni-Bracciale)

di Davide Simone

Nel 1980, la finanza statunitense scoprì il grande potenziale che le piattaforme mediatiche offrivano in termini commerciali e pubblicitari. Fu così che colossi quali la General Elettric, la Disney, la Twentieth Century Fox o, ancora, la Viacom, fagocitarono le maggiori testate cartacee e i maggiori canali audiovisivi. Effetto collaterale di questa operazione fu l’"infotainment" (“intrattenimento-spettacolo”), un genere di informazione variegato e popolare nato con lo scopo di cooptare il maggior numero possibile di spettatori (e quindi di acquirenti).Se decenni dopo il concetto di “infotainment” è abbastanza familiare anche tra i non “addetti ai lavori”, la stessa cosa non si può dire del “politainment”, sua diretta emanazione e forse fenomeno ancor più importante.Conseguenza anche della “personalizzazione” della politica, altro passaggio dovuto alla crescita del ruolo dei media (tradizionali e nuovi) nella nostra società, il “politainment” è una migrazione verso il “pop” dei vari leader di partito, l'acquisizione da parte loro di atteggiamenti tipici dello show buisiness, la partecipazione a programmi “leggeri” ma di grande successo. Il “politainment” può tuttavia limitarsi alla galassia on-line e soprattutto ai social. Un grande protagonista in tal senso è ad esempio Matteo Salvini, con i suoi post virali e anti-convenzionali su Twitter, Facebook e Instagram.Indicati da molti come responsabili del peggioramento dell'informazione politica e dell'imbarbarimento della politica stessa, il “politainment” e l'” infotainment” politico più in generale trovano ad ogni modo anche estimatori e difensori. Per la Prof. Baym, volendo citarne uno, offrono un “contrappeso alle forme tradizionali di discorso politico dominate da esperti e insider ma irrilevanti per i mondi vitali dei pubblici”, sono “un correttivo a un giornalismo che è diventato subalterno ai professionisti della comunicazione politica e affetto da condizionamenti di interessi extra-giornalistici” e hanno “il potenziale di rendere l'informazione gradevole, [...] premessa per partecipare all politica”

*Una simile spaccatura si verificò con l'affermazione della TV. Gli intellettuali di area marxista e della Scuola di Francoforte assegnavano (e assegnano) alla cultura e all'arte un ruolo pedagogico, quindi percepivano i programmi di evasione e l'intrattenimento leggero del piccolo schermo come strumenti usati dal potere per tenere le masse nell'ignoranza, in modo da gestirle e controllare meglio. A loro si opponevano gli “integrati”, che vedevano e vedono nella grande distribuzione un'opportunità per l'emancipazione della gente comune. Dopo l'entrata in politica di Silvio Berlusconi, in particolare, prese piede a sinistra la convinzione che il successo nelle urne del tycoon milanese fosse dovuto ad una manipolazione continua e costante delle coscienze degli italiani messa in pratica dalle sue reti televisive. Come la DC grazie a "Lascia o raddoppia?" e "Il Musichiere", Berlusconi avrebbe creato un nuovo tipo di italiano, servendosi di "Ok, il prezzo è giusto" o "Drive in". Un cittadino superficiale, orientato esclusivamente al profitto e all'edonismo, compatibile quindi con il messaggio forzista. Si tratta di un'analisi ideologica, sommaria e grossolana, che non tiene conto dell'evidenza che i programmi offerti da Canale 5, Italia Uno e Rete Quattro fossero perlopiù format stranieri e/o in ogni caso diffusi anche all'estero, mentre un fenomeno quale il berlusconismo è e resta peculiarità esclusiva del nostro Paese, senza riscontri nemmeno nelle democrazie occidentali più fragili. La chiave del successo politico dell'ex Cavaliere fu invero la sua capacità di porsi come uomo nuovo in una fase di crisi sistemica e valoriale acuta (1992-1994) e di coagulare intorno a se un elettorato già esistente e molto ben definito e definibile, quello missino, leghista e del pentapartito in disfacimento, ossia le forze che durante l'intera storia repubblicana si erano contrapposte alle sinistre comuniste, post-comuniste e ai loro alleati. Pur riconoscendo al suo arsenale mediatico e al suo prestigio come imprenditore un ruolo forse fondamentale nella sua ascesa politica, la teoria che vuole le tre reti di Cologno Monzese come oscure burattinaie della psicologia del popolo italiano non ha diritto di cittadinanza nella storiografa scientifica.

RE E  PARLAMENTO

di Giuseppe Borgioli

Nella follia della crisi politica italiana c’è una logica di fondo.  Il sistema repubblicano non funziona.  Il Parlamento è condannato alla paralisi. Il governo va rimorchio del parlamento venendo meno alla funzione di propulsore.  In queste condizioni   il leader di Italia viva Matteo Renzi (per calcolo politico o in buonafede?) ha recentemente rilanciato la proposta (non nuova) di eleggere direttamente il presidente del consiglio, con la formula invitante del sindaco degli Italiani. Va detto che la legge elettorale in uso nei comuni è forse l’unica che funzioni riuscendo a selezionare una classe dirigente di sindaci che, nel bene come nel male, hanno mantenuto un filo diretto con i cittadini al di fuori delle logore formule partitiche. Nel caso in esame del presidente del consiglio cosa significa la elezione diretta e quale rapporto si verrebbe a instaurare con il parlamento? È lo stesso dilemma che riguarda il presidenzialismo. Cosa cambierebbe con la elezione diretta del presidente della repubblica? Veramente la elezione diretta delle massime cariche dello stato colpirebbe la partitocrazia dominante? Abbiamo qualche dubbio che ciò possa avvenire e l’esempio di nazioni a noi vicine ci conferma nel nostro scetticismo. Intanto l’elezione diretta (del presidente della repubblica o del capo del governo) spaccherebbe il paese. Ogni elezione riprodurrebbe il clima politico del ’48, muro contro muro con l’esito di vincitori e vinti. Non è demagogia prevedere che l’unità della patria sarebbe ogni volta in pericolo. L’Italia ha bisogno di un parlamento efficiente e rappresentativo dei territori e dei settori professionali e sociali. Il Re è il luogo simbolico (dando a simbolo un significato forte) dell’unità nazionale. Il Re è l’arbitro del gioco a cui partecipa come guardiano supremo delle regole. Tutte le altre formule sono scorciatoie che possono aggravare i problemi perché danno l’illusione di risolverli.  Noi non siamo monarchici perchè nostalgici delle cerimonie. Siamo monarchici perchè siamo convinti che la Monarchia è l’unica strada per restaurare la dignità dello Stato.  Sappiamo anche che questa strada sarà lunga e difficile. Ma se l’abbandonassimo per una scorciatoia ci ritroveremo al punto di partenza con più problemi e meno energie spirituali

L’ANPI per il Giorno del Ricordo promuove un seminario dal titolo: "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe”. Che cosa centra con l’esodo e la pulizia etnica?

di Massimo Nardi

( tratto dal sito www.dabicesidice.it)

La notizia è stata data da Rete 4 giovedì 6 febbraio, ma già da qualche giorno avevo letto il comunicato stampa firmato da Alessandro Sacchi, presidente dell’Unione Monarchica Italiana (la più antica associazione monarchica) che è importante riportare in alcune parti, perché l’informazione è dare voce a tutti, piccoli, grandi e diversi altrimenti non c’è rispetto delle regole: - Apprendiamo da organi d’informazione che l'ANPI per voce del suo rappresentante, il sig. Pagliarulo, durante un convegno per ricordare il "dramma" delle Foibe, non avrebbe invitato gli esuli perché "non potevamo affrontare tutto" parole sue. La domanda sorge spontanea dunque: se non invita gli esuli e quindi le vittime di quello che non fu un dramma ma un vero e proprio crimine contro l'umanità da parte dei comunisti di Tito… chi mai dovrebbe invitare a giovamento di testimonianze autentiche? L'aggravante è che tutto ciò si svolga presso una struttura del Senato della Repubblica, pagata da tutti i cittadini, anche da quelli non invitati, anche dagli esuli -.

Che cosa dire o aggiungere a quanto sopra letto? Solo alcune considerazioni. Fin dalla sua nascita, l’ANPI (5 aprile 1945) ha avuto dei grossi problemi a fare i conti con il proprio passato. Già nel primo congresso nazionale, indetto a Roma nel 1947, fra le varie componenti emersero divergenze su questioni di politica interna ed estera, che comportarono la fuoriuscita nel ‘48 e nel ‘49 di molti esponenti di formazioni che fecero la resistenza. Democristiani, liberali, azionisti e monarchici presero strade diverse. Inutile che ci stiamo a nascondere dietro il politicamente corretto: varie sono le motivazioni ma storicamente si riducono a due. La resistenza è a esclusivo appannaggio comunista e i cattivi stavano solo da una parte. Tuttavia, ormai, sono anni che escono libri sul buco nero di quello che successe dopo il 25 aprile 1945 e della mattanza che ne seguì. S’iniziò con i libri di Giorgio Pisanò, ma era facile contestarlo perché era uno di quelli che andò Salò. Poi, arrivò un altro scrittore: Gian Paolo Pansa, cui era difficile appioppare la patente di revisionista repubblichino. In mezzo, tanti altri autori e ricercatori che hanno svolto un buon lavoro, denunciando le atrocità commesse dai partigiani, riconducibili al PCI dell’epoca, contro persone spesso innocenti a partire da quelle vissute nel Triangolo della morte qui in Emilia. Ora, salvo sporadici casi, ma quasi tutti a livello personale, l’ANPI non ha mai fatto un mea culpa su quanto denunciato. Di conseguenza, cosa c’è da sperare che esca da un seminario dal titolo (leggo dal loro sito web) "Il fascismo di confine e il dramma delle foibe". Il nulla! Perciò, è meglio fare quattro passi e andare da Giolitti a prendere un gelato. Come il gelo che dovrebbe calare su chi tende a confondere il ricordo di quello che fu un vero e proprio tentativo di genocidio, che poi non ci fu, poiché gli italiani di quelle zone di confine lasciarono la loro terra per salvare la pelle. Questa è la verità.

 

Il Presidente Nazionale dell'U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, ha nominato Amedeo Di Maio, napoletano, diciannovenne, studente in Medicina e Chirurgia, Commissario Nazionale del Fronte Monarchico Giovanile. Ad Amedeo Di Maio, i migliori auguri di buon lavoro dall'Unione Monarchica Italiana.   

              

Amedeo Di Maio

 

Sembra evidente a chiunque abbia una pur limitata conoscenza del diritto, e di quello costituzionale in specie, che la materia della successione al trono di uno stato retto da una monarchia costituzionale vada necessariamente ricercata nella Carta fondamentale dello Stato, cioè nella sua Costituzione. Infatti lo Statuto Albertino reca all’art. 2 la regola della successione al trono affermando che “il trono è ereditato secondo la legge salica”. Se ne deduce che solo una nuova carta costituzionale del Regno, da approvare nelle forme proprie di uno Stato “retto da un Governo Monarchico Rappresentativo” (sempre all’art. 2) potrebbe modificare la regola della successione al trono.

In sostanza la regola non è nella disponibilità della Famiglia Savoia ma degli organi dello Stato Rappresentativo, cioè del Parlamento in funzione costituente.

Se ne deduce che l’iniziativa preannunciata oggi costituisce una boutade priva di qualunque effetto giuridico.

Roma,15.01.2020

Il Presidente Nazionale 

Avv. Alessandro Sacchi