di Giuseppe Borgioli

Lo scontro di questi giorni fra Eugenio Scalfari il padre di Repubblica e Carlo De Benedetti, Il padrone, rivela la crisi di un giornale che si è sempre proposto dalla sua nascita come la voce più autorevole del regime. Apparentemente il divario di opinioni riguarda l’endorsement a Berlusconi. Ma la frattura è più profonda.  Eugenio Scalfari diede vita a Repubblica – anche con i soldi di De Benedetti.  proponendosi una operazione politica e editoriale ambiziosa. Portare la sinistra italiana al governo con la benedizione dei poteri forti, delle istituzioni finanziarie, di una fetta della borghesia, senza colpo ferire, con la più ampia accondiscendenza possibile

Repubblica fu l’espressione editoriale del compromesso storico.

L’ operazione è andata in porto. Come a dire l’intervento chirurgico è riuscito ma il malato è morto. La sinistra si è frantumata e la voce di Repubblica si è sempre più affievolita: Le encicliche che settimanalmente Eugenio Scalfari andava pubblicando che dovevano dettare la linea di condotta per la si sinistra erano sempre meno prese in considerazione sino a casere nel disinteresse generale.

Scalfari aveva incontrato il suo momento magico con Enrico Berlinguer, quando il suo ruolo di suggeritore del principe era apprezzato. Berlinguer non intendeva andare direttamente al governo e I finanziatori di Repubblica (con De Benedetti in testa) non erano così stupidi da non prevedere il trauma economico che avrebbe provocato  lì inclusione del PCI nel governo-

Lo scopo di Scalfari (e Berlinguer) era di portare il PCI nell’area di governo per scrivere l’agenda della politica e dell’economia, scegliere i ministri e dirigenti pubblici, banchieri e commessi dello stato. Tutti sotto la etichetta indipendenti e la patente di professionalità che solo la sinistra riconosceva.

 Bisognava isolare per colpire quanti si opponevano al regime, quanti erano veramente indipendenti e non erano disposti a obbedire.In questo progetto Scalfari e De Benedetti erano solidali. Appartenevano alla stessa razza padrona. Frequentavano gli stessi salotti. Coltivavano da sempre le stesse amicizie politiche. Si ritrovavano negli stessi club e negli stessi convegni internazionali. Si intervistavano a vicenda e la musica non cambiava mai poiché non erano ammesse voci fuori dal coro.

Repubblica ha saputo gestire con intelligenza una vera dittatura intellettuale finalizzata a fare affari.

Le vicende italiane sono state segnate dell’attività oscura e palese di  questo comitato d’affari che ha segnato alcuni capitoli ancora misteriosi dalla vendita della SME, alla Mondadori, al Banco Ambrosiano. Altro che insider trading- La razza padrona ha spadroneggiato.

“Arricchitevi” era il motto di Francois Guizot. Ma almeno era rivolto a tutti indistintamente e non esclusivamente agli amici e compagni.

02.02.2018

    

           

L’Unione Monarchica Italiana, nel prendere atto che il Sindaco di Napoli, Dott. Luigi de Magistris, senza alcuna consultazione popolare, continua a stupire la cittadinanza con decisioni divisive e non necessarie, come il cambio di toponomastica di Piazzale Tecchio e Via Vittorio Emanuele III, ricorda che per i napoletani Viale Gramsci continua ad essere Viale Elena.

In questa miope strategia toponomastica, senza il senso della storia, non rimarremmo basiti quando via dei Mille dovesse diventare Via Pappagone.

Napoli.29.01.2018

Avv. Alessandro Sacchi

E' uscito recentemente il libro “Il colle più alto” di Mario Pacelli e Giorgio Giovannetti  (prefatore il politico Giuliano Amato).Colpisce la prima parte del libro (quella relativa al Regno) che è un quadro denigratorio dei Sovrani d'Italia, di errori, di pettegolezzi, di dicerie, di falsità.Stupisce prima di tutto che il prefatore e gli autori che rivedono le bucce e i conti in tasca ai Re d'Italia, siano Giuliano Amato, del quale è nota l'estrema povertà; un funzionario della Camera dei Deputati il cui stipedio misero è noto a tutti; e un dipendente RAI i cui emolumenti sono anch'essi da fame; RAI nella quale si è assunti non già per pubblico concorso, ma per amicizie, protezioni politiche ed altri non sempre limpidi mezzi.Passando ad esaminare brevemente (nei limiti di una recensione), osservo al Signor Amato che il personale che “brulica” (p. XI) attualmente il Quirinale non è certo inferiore a quello del periodo regio in cui le cariche erano spesso meramente onorifiche e quindi non pagate coi soldi del cittadino. Le insinuazioni che l'Amato fa (p. XII) risultano negative per chi le scrive e non già per chi ne è oggetto. Soprattutto se provengono da magistrato nominato (dal pres. della Rep.) alla più alta Corte della Repubblica. Quanto all'affermazione che quella di Vittorio Emanuele II fosse una delle corti “più sontuose d'Europa” comprova l'ignoranza in materia del costituzionalista. La “leccata” a Ciampi nel finale, che “ha restituito l'orgoglio  agli Italiani, ecc.” fa solo sorridere.Pag. 4. Che Umberto II abbia fatto una “falcidia” di documenti non ha fonte, quanto a tutte le chiacchiere su “saccheggi” non riesco a capire come il Re avrebbe potuto portarsele in aereo le casse, in quanto partì con due valigie. L'ultimo capoverso del paragrafo (p. 5) è poi incomprensibile, come poteva esservi un “saccheggio” se nel 1964 e nel 1968 vi furono dei versamenti all'Archivio di Stato? Pag. 24. Non trovo traccia nel saggio delle continue, cospicue  donazioni che i Sovrani effettuavano in occasione di tragici eventi. Non trovo traccia della inesausta opera di beneficenza della Regina Elena (“Signora della carità benefica”: Pio XII), anche nell'esilio di Montpellier, tanto da indurre una suora del luogo a scrivere un libretto “I fioretti di Montpellier” e da far dire a Scalici (sono sicuro che gli autori sanno chi fosse) che non c'erano più soldi. Opera di bene svolta anche da Margherita (v. biografia di Casalegno). I Sovrani davano e davano molto, cari autori disinformati e denigratori, in tutti i settori, anche artistici, acquistando ad es., in occasione di mostre, quadri e sculture che poi donavano ai vari musei. La “Chiesa degli Italiani” di Bucarest fu costruita coi soldi di Vittorio Emanuele III.   Umberto II donò, seguendo l'esempio di suo padre per le monete, la sua raccolta di medaglie durante un governo Fanfani . Nel libro non si cita la lettera di Vittorio Emanuele III, letta alla Camera da Nitti l'11/9/1919: “... E' mio desiderio che parte dei beni fin qui di godimento della Corona ritorni al demanio dello Stato e quanti costituiscono fonte di rendita siano ceduti all'Opera nazionale combattenti. (…). Vorrei, infine, che la lista civile fosse nello stesso tempo ridotta di tre milioni; ferma mantenendo la restituzione allo Stato, che sarà come da me operata nel passato, del milione che rappresenta il dovario della mia genitrice”. Pag. 39. “La montegrina” [non sarebbe per caso un termine un tantino razzistico per indicare la buona Regina Elena?].Pag. 55. “Colonna di militari tedeschi” di via Rasella. Ma non erano anziani territoriali altoatesini?Pag. 59. Il 5 giugno 1946 (a p. 61 si indica il 10 giugno) non fu “proclamato” un bel niente. La Suprena Corte diede i risultati provvisori del referendum.Mi raccomando “Monarchia” sempre con la erre minuscola, “Repubblica” maiuscola! Sempre “ex re” (minuscolo). Che gli autori siano deboli in grammatica? Se dico presidente o re per indicare una precisa persona va maiuscolo.Maria Gabriella è figlia di Umberto, non “sorella”.Il tesoro della Corona NON comprende “migliaia di perle, diamanti, diademi, bracciali, spille, orecchini”. Il cofano fu riaperto negli Anni '70 e il contenuto non risultò quello che si afferma nel libro con malignità ed erroneamente. Ed è naturale che non vi fosse tale ricchezza. Il tesoro della Corona del Regno di Sardegna fu saccheggiato da Napoleone e scomparve durante l'occupazione del Piemonte. Questo di cui diciamo, era quello dei Savoia-Carignano, un ramo assai laterale della Dinastia (Viana, “Il Re costava meno”). Nel cofano custodito dalla Banca d'Italia non vi è quindi nessuna corona del Regno di Sardegna, nessuno scettro, nessun Collare dell'Annunziata (che erano a parte e che Umberto II lasciò all'Italia).O ignorantissimi, la Corona Ferrea è, ed è sempre stata, nel duomo di Monza.Vittorio Emanuele III, per vivere, prima di andare in Egitto, chiese un prestito al Papa (la leggete la rivista di Perfetti?). Umberto impegnò la collana di Margherita per pagare le spese del referendum (Artieri, Sale).

  1. 59-60. Passando al “ben poco delle proprietà degli ex re e della loro famiglia fu confiscata”; ma non per magnanimità della Repubblica come date ad intendere. Prima di tutto, osservo, furono avocati allo Stato dei beni privati, se gli eredi di Umberto si rivolgessero alla Corte di Giustizia europea, la Repubblica dovrebbe restituirli. Ma poichè era intervenuta la morte del de cuius prima dell'entrata in vigore della Costituzione “più bella del mondo”, l'aberrante norma costituzionale non era applicabile alle figlie di Vittorio Emanuele III. Il prof. Pacelli dovrebbe conoscere la regola giuridica se è stato un prof. di diritto all'Università anche se di “pubblico” e non di “privato”..

Nonostante l'avocazione dei beni nei confronti delle figlie apparisse senza fondamento anche a uno studente del primo anno di Giurisprudenza che ha dato “privato”, la Repubblica (ma in questo caso sarebbe forse meglio scriverla minuscolo) intentò cause sballate che andarono avanti anni, perdendole tutte.  (Artieri “Cronaca del Regno d'Italia”, vol. II, Appendice).Pag. 60. I beni di Vittorio Emanuele III furono ereditati dalle figlie (“una era morta)”.  Con tale linguaggio, solamente così, viene indicata per la prima e ultima volta Mafalda !!!Solo il quinto di Umberto poteva essere rubato e venne concentrato su Racconigi che passò allo Stato.  Studiosi degni del nome non direbbero mai che “certamente vi furono depositi di denaro all'estero”, se si “sospetta”, ma non si prova. Gli autori sono stati forse fuorviati da ciò che succede nella Repubblica Italiana. Sempre vennero denunciati dal Re al Governo l'esistenza dei soldi in Inghilterra (v. Viana).A proposito di tali soldi derivanti dall'assicurazione sulla vita dell'assassinato Umberto I, la Repubblica cercò di mettere le mani anche su questi, ma i processi intentati con i soldi delle tasse degli Italiani e persi con relative spese, furono tutti rigettati e il giudice inglese espresse parole infamanti per la Repubblica (Artieri). Non furono affatto  investiti  (p. 23). Ma quali fonti hanno consultato gli autori?

Si è tenuto a Corato, sabato 13 gennaio, per iniziativa del Segretario Nazionale Oronzo Cassa, il convegno “I percorsi dell’anima”. Innanzi ad una platea affollatissima, presso la Biblioteca Comunale, moderatrice la Dott.ssa Angela De Chirico, si sono alternati numerosi relatori che hanno svolto altrettante interessanti relazioni. Dopo l’introduzione del Segretario Cassa, il Sindaco di Corato presente, Massimo Mazzilli ha voluto rivolgere  ai convenuti il saluto dell’Amministrazione comunale.Hanno seguito poi gli interventi di Roberta Maldera, Valentina Scimonelli, Rossana Gargiulo e Giuseppe Caporale.Il Presidente Nazionale, Alessandro Sacchi, ha svolto le applauditissime conclusioni.

La sala

Il tavolo degli oratori con al centro il Presidente Nazionale dell'U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, e il Segretario Nazionale dell'U.M.I., Rag. Oronzo Cassa.

di Paolo Albi

“Non punibile” ai sensi dello Statuto Albertino, vigente all'epoca dei fatti: questa la sentenza  del processo a Vittorio Emanuele III per ipotizzata responsabilità nella emanazione delle famigerate leggi razziali del 1938,  svoltosi, sia pure come spettacolo (regista Angelo Bucarelli) ma in guisa molto seria, all' Auditorium di Roma.

Corte presieduta da Paola Severino, giudici a latere Ayala e Spina, accusatore Marco de Paolis e avvocato di parte civile Giorgio Sacerdoti (“chiediamo la condanna alla damnatio memoriae”), autodifesa (“solo rimasi in quei terribili momenti e solo ritengo di dovermi difendere oggi”) di S.M. il Re impersonato da un lucidissimo Umberto Ambrosoli.

Autodifesa tecnicamente impeccabile (natura flessibile e non rigida dello Statuto Albertino; limitati poteri di vaglio del Re, confinati alla mera correttezza dell'iter procedurale) e politicamente autentica e commossa (l'amicizia tra la Casa Reale e gli ebrei italiani; il ruolo importante degli ebrei nel Risorgimento e al governo del Paese fino al 1938; il conflitto sotterraneo con un Mussolini vieppiù insofferente del ruolo equilibratore e moderatore della Corona; la presenza dell'esercito di Hitler ai confini, pronto a dar man forte militare al Duce contro il Re e le preoccupazioni per le efferatezze che avrebbero potuto conseguirne sin da subito, come poi avvenne a partire dal 1943, per il popolo italiano e per le comunità ebraiche).

Il Re-Ambrosoli non ha ritenuto ovviamente di doversi difendere incolpando il proprio popolo, ma è verità storica che in quel dramma Egli fu lasciato davvero solo: quasi niuna voce si levò da parlamentari e intellettuali e anzi molti cattedratici si acconciarono volentieri nei posti lasciati liberi dai professori ebrei, la  stessa Chiesa fu silente, il consenso dell'opinione pubblica al regime rimase plebiscitario.

Permangono ovviamente, al di là e al di sopra delle singole responsabilità, la condanna inappellabile per l' inumane leggi e il peso del giudizio della  Storia su quelle vicende.

Momenti toccanti della serata sono stati pure le rievocazioni documentarie di un antico vincolo tra la Dinastia e le comunità ebraiche italiane: dai diritti civili riconosciuti il 29 marzo 1848 da Carlo Alberto, ai diritti politici immediatamente concessi - fatta Roma Capitale - da Vittorio Emanuele II agli ebrei romani in uno con la determinazione di costruire la Sinagoga, sino alla  affettuosa e partecipe visita inaugurale alla medesima di Vittorio Emanuele III il 2 luglio 1904.

Un legame e una solidarietà che per i monarchici italiani non sono in discussione.

In relazione alle prossime elezioni politiche del 4 marzo, l’Ufficio di Presidenza dell’Unione Monarchica Italiana ha deliberato, all’unanimità, di valutare proposte e soluzioni politiche provenienti partiti o formazioni politiche che avranno, chiaramente, nel proprio programma l’abrogazione dell’art. 139 della Costituzione.

L’art. 139 della Costituzione, che testualmente recita “ La forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale” è infatti, secondo l’U.M.I. in netto contrasto con l’Art. 1 della nostra carta fondamentale, il quale recita “La sovranità appartiene al popolo (…)”.

Secondo l’U.M.I. la sovranità o è totale, o non è, e la battaglia per l’abrogazione dell’art. 139 della Cost., articolo antidemocratico, è una battaglia che può essere condivisa anche da chi, sincero democratico, non condivida la soluzione istituzionale monarchica.

L’U.M.I. non regalerà più un solo voto a partiti che si avvicinano ad essa in fase elettorale, promettendo vicinanza ideale o appoggio su singole tematiche. Per avere i voti dei monarchici occorrerà un chiaro e pubblico impegno programmatico.

Roma, il 17.1.2018

                                                                   Il Presidente Nazionale

                                                                  (Avv. Alessandro Sacchi)