Si è tenuta, martedì 21 novembre 2017, a Bologna una riunione del comitato regionale emiliano dell'Unione Monarchica Italiana, presieduto dal Prof. Mariano Torre.  Durante l'incontro, al quale ha presenziato il Presidente nazionale, Avv. Alessandro Sacchi, è stata programmata l'attività per il 2018.

Il Presidente nazionale dell'U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, con il Presidente regionale dell'Emilia Romagna dell'U.M.I., Prof.Mariano Torre.

Il Presidente nazionale e il Presidente Regionale dell'Emilia Romagna dell'U.M.I.con i membri del comitato regionale

Si è tenuto, sabato 28 ottobre 2017, l’atteso incontro con il Presidente nazionale U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, con iscritti e simpatizzanti della città di Cagliari.

L’evento è stato organizzato dal responsabile U.M.I. per la città di Cagliari, Gianluca Cocco,  ha visto la partecipazione di un folto ed interessato pubblico.

Alla conferenza del Presidente, sono seguite numerose domande dei partecipanti.

La serata è terminata con una partecipata cena sociale.

A presto per un nuovo incontro!

Il responsabile U.M.I. di Cagliari, Rag. Gianluca Cocco, e il Presidente nazionale U.M.I., Avv.Alessandro Sacchi.

  Il tavolo dei relatori

Il pubblico

 

 

del Prof.Avv.Salvatore Sfrecola

caporettoLe prime avvisaglie di quella che sarebbe passata alla storia come la battaglia di Caporetto (24 ottobre - 12 novembre 1917), la cittadina, oggi in Slovenia (Kobarid), nell’alta valle dell’Isonzo, sulla riva destra del fiume, tra Tolmino e Plezzo, si percepirono già il 21 ottobre 2017. Quella mattina iniziò con un cannoneggiamento delle nostre linee, tiri isolati ma con obiettivi precisi, in particolare i centri di comando avanzati, come osservò il Re nel corso di una delle sue ispezioni al fronte, giudicando che fossero destinati a saggiare la nostra capacità di reazione, preludio del massiccio bombardamento del 23, iniziato già la notte precedente. Che riprenderà alle 2 del 24 ottobre, inizialmente misto a gas. L’artiglieria austro-tedesca che schiera 2.518 pezzi, tra cannoni e bombarde, batte soprattutto le nostre postazioni di artiglieria. Nel bombardamento vengono colpiti i cavi telefonici a terra e questo interromperà molti collegamenti tra i comandi aumentando la confusione in quelle ore drammatiche.

Il tempo è pessimo, piove, nevischio alle quote più alte, nebbia in valle.

Il cannoneggiamento dura cinque ore, concentrato su pochi chilometri, “con grandissima intensità: battono i passi e gli osservatori. Inoltre cercano di individuare, a quanto pare, le batterie”, scrive Angelo Gatti, Colonnello, ufficiale di stato maggiore addetto al Comando supremo che ne riferisce nel suo prezioso Diario di Guerra. Ma non ne fu compresa subito la finalità, nonostante le proporzioni dell’attacco. Infatti il cannoneggiamento “è vivissimo”, scrive ancora Gatti. “Tutti i paesi delle retrovie sono battuti fortissimamente”. Eppure apre il diario del 24 con queste parole: “nella giornata, niente di nuovo”. Che fa il paio con il “nulla di importante” del Generale Pietro Badoglio, che comandava il XXVII Corpo d’Armata. I suoi cannoni, oltre 400, rimangono silenti. Gli sarà sempre rimproverato. Per giustificarlo si dirà, poi, che aveva immaginato di accerchiare il nemico che fosse penetrato tra i monti dei quali i nostri osservatori tenevano sotto controllo le vette. Uno dei tanti errori di percezione delle intenzioni degli austro-tedeschi i quali percorsero il fondovalle coperti dalla nebbia. E chi intravide quelle divise ritenne fossero di prigionieri in corso di trasferimento! Eppure nel Diario di Gatti alla data del 23 ottobre si legge: “è accertato che abbiamo di contro 9 divisioni tedesche. Pare le comandi von Below: pare che ci sia il III corpo d’armata comandato da von Stein”. Il dato è confermato ma al Comando supremo il Generale Gabba dice a Gatti che “non sa nulla di quanto succede (ore 17)”. E gli fa leggere “l’ordine integrale di attacco” portato da un ufficiale disertore il quale “ha poi detto in che modo il grande attacco si sarebbe svolto, con tutte le truppe tedesche e austriache”. Ma il generale ritiene “che ciò che [il disertore] dice dell’attacco in grande sia esagerato”.

Al Comando supremo si dubita della fondatezza di quelle informazioni, peraltro dettagliate e stavolta condivise dall’Ufficio situazione. Nelle conversazioni tra i generali, compreso il Comandante generale, Luigi Cadorna, si dice che “c’è incertezza nel crederci interamente, e nel giudicar gli intenti”. Arrivano i primi dati preoccupanti: della 43^ e della 50^ divisione “non si hanno notizie. 20.000 prigionieri, forse. Tutti i cannoni perduti”. Il IV corpo “non ha resistito nemmeno un minuto. Il XXVII è stato anch’esso superato subito sulla sinistra. Anzi, il IV corpo accusa il XXVII di aver permesso all’avversario di filare dai ponti di Tolmino, per il costone, e alle spalle dei nostri”. Sono gli alpini del Württemberg, un battaglione che si articola su tre distaccamenti. Uno è al comando di un giovane tenente (26 anni) destinato ad una prestigiosa carriera militare, Erwin Rommel. Attua una nuova tattica, quella della infiltrazione tra le linee nemiche di piccole unità autonome (Storstruppen) altamente addestrate e dotate di una notevole potenza di fuoco. Non si ferma ai primi successi, combatte senza interruzione; tra il 24 ed il 26 ottobre cattura novemila soldati, centocinquanta ufficiali, ottantuno cannoni. Al prezzo di 6 morti e 30 feriti! Gli sarà assegnata la decorazione Pour Le Mérite la più alta onorificenza militare tedesca, l’ambitissima croce azzurra (Blauer Max) istituita nel 1740 da Federico il Grande, denominata in francese. È in quelle valli che prende forma il mito della futura “Volpe del deserto”, poco considerato dai colleghi dell’altezzosa casta militare prussiana, lui, di umili origini, ma molto amato dalla truppa.

Comincia la litania delle brutte notizie, sempre più tragiche mentre gli errori si sommano alla inadeguata percezione di quel che stava accadendo. Cadorna, ci dice Gatti, testimone prezioso perché presente, “non era del tutto orientato sulla direzione dell’attacco nemico”. Capello “era addirittura disorientato”. In queste condizioni la sconfitta sarà gravissima, definita anche “rotta”, “disfatta” o “catastrofe”, una tragedia nazionale con uno strascico di polemiche e di recriminazioni che ancora oggi impegnano molte pagine nei libri di storia, alla ricerca delle responsabilità di quel tragico evento quando le truppe italiane dovettero abbandonare migliaia di chilometri quadrati di suolo patrio, il Friuli e parte del Veneto, fino a mettere a rischio la stessa Venezia che, infatti, si pensò di abbandonare. Si temette per la tenuta dell’Esercito e per la stessa sopravvivenza del Regno, del quale era stato appena celebrato (1911) il cinquantenario della sua costituzione.

E grave fu l’inadeguatezza delle misure che sarebbe stato necessario disporre ed adottare di fronte ad un attacco prevedibile e in parte previsto. Per non dire del mancato coordinamento tra i comandanti della unità impegnate sui vari settori del fronte ai quali pure Cadorna aveva impartito precise disposizioni il 18 settembre in una circolare nella quale sottolineava che “il continuo accrescersi delle forze avversarie sulla fronte Giulia fa ritenere probabile che il nemico si proponga di sferrare quivi prossimamente un serio attacco, tanto più violento quanto più ingenti forze potrà esso distogliere dalla fronte russa”. E formula una direttiva a carattere difensivo certamente appropriata nei fini ma non dettagliata nei mezzi. Alla quale comunque non si dà attuazione, in particolare dal Generale Luigi Capello, Comandante della II armata, fautore di una dottrina che definisce “difensiva-controffensiva”, ribadita in un ordine di operazioni l’8 ottobre. Cadorna lo lascia fare.

Nel frattempo gli austro-tedeschi mettono a punto i loro piani con quella cura del dettaglio “tipica del ben addestrato stato maggiore tedesco” (Da Frè) aiutati da una ricognizione puntuale dei luoghi sui quali avrebbero condotto l’attacco. Aerei dotati di apparecchi fotografici consentono di realizzare cartine topografiche a colori che saranno distribuite anche ai reparti minori. Contemporaneamente le unità destinate ad essere impiegate vengono equipaggiate e intensamente addestrate alla guerra su terreno montuoso, mentre il loro ammassamento sulle posizioni di partenza avviene di notte sin sotto le linee italiane. Sono 383 battaglioni di fanteria con quasi 4.000 cannoni, un dispositivo inferiore a quello italiano che schiera complessivamente 570 battaglioni con 5.400 pezzi di artiglieria. Prevalgono tuttavia gli austro tedeschi per aver saputo concentrare il fuoco dei cannoni e scegliere con precisione gli obiettivi della penetrazione delle fanterie.

Alla vigilia i nostri comandi non avevano ancora le idee chiare, come anticipato. Alla data del 21 ottobre Gatti, che vive le vicende al Comando supremo, scrive: “oggi, quasi inopinatamente per i più, anche di noi militari, si dà come assai probabile la venuta di truppe tedesche in gran copia alla nostra fronte”.

Continua: “voci del loro arrivo c’erano da tempo.

Voci di una grande offensiva, infatti, erano più che corroborate da fatti, per alcuni corroborate da ragionamenti. C’erano in pro di questa offensiva il grande numero di disertori austriaci che da qualche giorno affluiscono nelle nostre linee, le intercettazioni, il tiro delle artiglierie che da qualche giorno si viene intensificando sulle retrovie”. Inoltre, complice “il maltempo generale, tutti i nostri aviatori non hanno visto che moderato movimento nelle retrovie nemiche. Di tedeschi, poi, non si è visto altro che un annegato, pioniere, nell’Isonzo”.

Sempre quel giorno il diario di Gatti dà tragicamente conto della incapacità di analisi della situazione: “il continuo spostarsi della voce di offensiva, che si diceva fissata pel 12 ottobre, poi per 19 e non viene mai, aveva fatto dubitare, o sorridere della cosa. A tavola scherzavamo, dicendoci: quando verrà quest’offensiva?”

Dicono bene Moroni e Rastelli: “Una sorpresa che non avrebbe dovuto essere tale. Oppure, meglio, una sorpresa che non aveva nulla della sorpresa ma che ha finito con il diventare una sorpresa. Pessima, oltretutto. La battaglia di Caporetto fu tutto questo”.

Ad essere trascurata era stata in primo luogo la situazione del conflitto sul fronte russo dove si registravano da mesi continui cedimenti dell’armata imperiale. Così da rendere disponibili alcune divisioni tedesche relativamente fresche da trasferire sul fronte italiano, richieste dal nuovo Imperatore austriaco, Carlo, al collega tedesco Guglielmo su pressante sollecitazione del nuovo comandante generale Arz von Straussemburg, dopo l’offensiva sulla Bainsizza, nella XI battaglia dell’Isonzo quando gli uomini del XXIV Corpo d’armata guidato dal Generale Enrico Caviglia erano riusciti a sfondare questo settore del fronte. Era costata all’esercito asburgico “qualcosa come 160.000 uomini, fra cui 30.000 morti”, come scrive il Generale August von Cramon, richiamato da Barbero. Se ne parla, infatti, ma si trascura di mettere insieme pezzi di informazioni. Anche la presenza del cadavere di un pioniere tedesco raccolto nel fiume alla vigilia dell’attacco non sollecita riflessioni. Eppure non poteva essere un militare isolato.

Le avvisaglie, dunque, c’erano tutte e l’offensiva era prevista. Ma per Cadorna non in quei giorni. Tornato il 19 ottobre da 15 giorni di licenza trascorsi a Villa Carmenini (Vicenza), era “molto scettico” sulla ipotesi di partecipazione germanica all’offensiva nemica che, a suo giudizio, si sarebbe concretizzata semmai in primavera: “passiamo così l’inverno”, dice a Gatti che alla data del 20 aveva annotato: “le voci di un’azione nemica vanno prendendo sempre più piede”. E il 22 scriverà “pare accertato che le truppe tedesche siano molte”.

Sotto l’incalzare del nemico lo sbandamento è generale. Cadorna e il Comando Supremo praticamente scompaiono per 8 – 10 giorni, come ha scritto lo storico Giorgio Rochat. Nella confusione immagina fosse necessario arretrate sempre di più, dall’Isonzo al Tagliamento al Piave e forse all’Adige, al Mincio. Una soluzione che avrebbe fatto cadere in mano al nemico Venezia e Milano, un autentico disastro per l’Intesa, perché sarebbe rimasta agli austro tedeschi, da tempo a corto di approvvigionamenti, quasi alla fame, la ricca pianura padana. Di lì, inoltre, le truppe dell’alleanza avrebbero potuto portare una seria minaccia alla Francia, da tempo in condizioni critiche. L’esercito francese era, infatti, il “grande malato che il generale Pétain stava cercando di guidare sulla via della convalescenza” (Da Frè).

Le notizie dal fronte fanno montare le polemiche, le accuse di tradimento e fellonia che si sommano a quelle di disfattismo, soprattutto contro socialisti e cattolici che avevano avversato l’entrata in guerra. Aggravate da un comunicato di Cadorna, difficile da commentare: “la mancata resistenza di reparti della 2^ Armata, vilmente ritiratisi senza combattere o ignominiosamente arresisi al nemico, ha permesso alle forze austro-germaniche di rompere la nostra ala sinistra sulla fronte Giulia”. Accuse forse per alcuni reparti vere, a leggere le memorie di Rommel, ma inaccettabili nel comunicato di un Comandante generale che deve pensare al morale delle truppe ed alla riscossa. Infatti, il governo corregge immediatamente il testo in “violenza dell’attacco” e “deficiente resistenza di alcuni reparti”, consapevole dell’effetto dirompente che le parole di Cadorna avrebbero potuto esercitare all’interno e sugli alleati. I quali, infatti, si incontrarono all’hotel Kursaal di Rapallo il 6 novembre in un clima di aperta sfiducia nei confronti dell’Italia, presenti per gli inglesi il Primo ministro Lloyd George e i generali William Robertson, Henry Wilson e Jan Smuts, per i francesi il Presidente del Consiglio Paul Painlevé, il Ministro della guerra Henry Franklin-Bouillon, l’Ambasciatore a Roma Camille Barrère e i Generali Ferdinand Foch e Maxime Weygand. Fu chiesta come prima cosa la testa di Cadorna. Ne riferisce Gatti che dà conto, altresì, dell’umiliazione subita dalle autorità italiane. Infatti francesi e inglesi “si riunirono fra loro, con esclusione dei nostri. Orlando, Sonnino, Alfieri e Porro (Cadorna non si presenta) attesero così, alla porta come servitori, che gli altri decidessero”. Vittorio Emanuele Orlando era il Presidente del Consiglio, Sidney Sonnino il Ministro degli esteri, Vittorio Alfieri, generale, il Ministro della guerra e Carlo Porro il Sottocapo di Stato maggiore. Francesi e inglesi avevano dato loro appuntamento prima alle 18, poi alle 19, quando i nostri dovettero limitarsi ad ascoltare le decisioni assunte. E se fu riconosciuto “che la difesa dell’Italia era anche interesse alleato”, con apporto di 4 divisioni francesi e di 4 inglesi (che poi diventeranno rispettivamente 6 e 5) in pratica subimmo un dictat. Il primo ministro inglese Lloyd George impose come condizione “assoluta”, oltre alla sostituzione del Comandante generale, la creazione di un Consiglio interalleato composto dai 3 presidenti dei consigli dei ministri più 3 ministri. Anche Orlando, Sonnino e Alfieri concordavano sulla sostituzione di Cadorna “inaspriti dal fatto che non aveva mai voluto dare ampio conto di ciò che egli faceva”. “Questo era stato, veramente, sempre il difetto di Cadorna”, ammette Gatti che lo stimava, gli era fedelissimo e chiama “il Capo”. Tanto da tacciare di “ingratitudine” per la sua sostituzione il Re che, per la verità, del comportamento di Cadorna si era più volte risentito. Con Armando Diaz, invece, per il quale aveva da tempo manifestato apprezzamento, Vittorio Emanuele avrà un quotidiano scambio di idee sull’andamento delle operazioni. Delle quali ugualmente il Comandante generale terrà informato il Governo.

In questa condizione di aperta sfiducia degli alleati per il nostro esercito, il Re, “l’unico a non perdere la testa”, come ha sottolineato RAI Storia, mai tenera nei suoi confronti, volle si resistesse sul Piave. E l’ottenne, a Peschiera sul Garda, l’8 novembre, dove aveva invitato i ministri ed i generali che si erano incontrati a Rapallo il 6. Presenti Paul Painlevé, i Generali Foch e Wilson e Lloyd George (che ce ne ha lasciato la cronaca), il Re, parlando in inglese e francese, tenne un rapporto che gli guadagnò “il rispetto di tutti per la chiarezza e franchezza con cui fece il punto della situazione, realisticamente”. Elencò le cause del disastro citando anche la “falla morale”, ma senza attribuirla alla propaganda disfattista, cui infatti non credeva (e lo aveva già detto ai nostri generali). Garantì la capacità di resistenza dell’Esercito, escludendo perentoriamente qualsiasi ipotesi di crollo nazionale. Per il Sovrano il valore del soldato italiano non era in discussione, come il sentimento patriottico della maggioranza degli italiani nell’ora difficile che il Paese viveva. Lloyd George “ne rimase impressionato” (Silvestri). Il suo ruolo fu determinante nel richiamare l’impegno di ciascuno, senza retorica, tanto che cancellò dal proclama, che il Presidente del Consiglio Vittorio Emanuele Orlando gli aveva preparato, l’incipit enfatico che non era nel suo stile (“Una immensa sciagura ha straziato il mio cuore di italiano e di Re”). Invece esordì: “Italiani, siate un esercito solo!”

Da allora “Caporetto”, nel linguaggio comune, evoca un fatto negativo gravissimo, una sconfitta senza rimedi, la “disfatta per antonomasia”, scrive Stefano Lucchini nella prefazione di “A Caporetto abbiamo vinto”, da poco in libreria. Un libro che ricostruisce, “attraverso la viva voce di protagonisti e testimoni, la drammatica successione dei fatti e il loro impatto sull’opinione pubblica”. Eppure, dopo le polemiche di quei giorni e all’indomani della vittoria, si volle in qualche modo archiviare la sconfitta, rimuoverla dalla narrazione dell’“Italia di Vittorio Veneto” presentata al Re dal Capo del Fascismo. Ne è prova l’attribuzione del grado di “Maresciallo d’Italia” contemporaneamente al generale sconfitto, Luigi Cadorna, ed al vincitore, Armando Diaz. Ugualmente vengono archiviati gli atti della Commissione d’inchiesta sulle cause della sconfitta, dinanzi alla quale si è sentito dire dai fanti in rotta che essi avevano obbedito ad ordini, che si era sparsa la voce che la guerra fosse finita e loro potessero tornare a casa. Un po’ come accadrà dopo l’8 settembre 1943! Anche degli atti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulle spese militari voluta da Giovanni Giolitti, che ha fatto emergere diffuse attività corruttive nelle forniture di armi e mezzi, si sono perse rapidamente le tracce e solamente di recente la Camera dei deputati ne ha pubblicato una parte in tre preziosi volumi.

Ed è certamente vero che se “a Caporetto non abbiamo vinto” è altrettanto vero che quella battaglia ha segnato una svolta fondamentale, ed ha posto le basi della ripresa delle operazioni militari e della vittoria che le armi italiane conseguiranno nel 1918. Infatti non pregiudicò l’esito della guerra, il momento conclusivo del Risorgimento, “visto che aveva finalmente completato l’unità del paese, facendo coincidere i confini naturali della penisola con quelli politici” (A. Ventrone, Prefazione a L. Falsini, Processo a Caporetto. I documenti inediti della disfatta). Immediato fu il risveglio delle migliori energie, della politica, delle nostre Forze Armate e dell’intero popolo italiano. Fu “uno scatto di orgoglio nazionale” (Milza). Cambiarono molte cose. Tutto quello che doveva cambiare da tempo. Dai rapporti tra il Governo ed i vertici dell’Esercito che, con il nuovo Comandante generale, Armando Diaz, divenne più moderno nell’organizzazione e credibile nelle modalità d’impiego, anche agli occhi dei governi e degli Stati Maggiori alleati.

Doti del nuovo Comandante generale, da tutti riconosciute, erano “l’equilibrio, la duttilità, l’umanità coniugata alla fermezza, la laboriosità, la precisione, il senso del dovere e del servizio” (Rosso). Il Ministro Alfieri a Rapallo ne tesse le lodi: “Ha comandato bene un corpo d’armata, ha sempre avuto fortuna, è intelligente, è malleabile. In questi momenti, in cui abbiamo relazioni con gli alleati, può andar bene”. Gatti che riceve queste parole, continuerà a ritenere il nuovo capo inferiore al predecessore del quale ha una straordinaria considerazione.

Le cause della disfatta, come denuncia la conta dei caduti e dei prigionieri, la vastità delle terre perdute e il numero dei profughi, furono essenzialmente militari, come fu evidente di lì a breve fin dalle prime risultanze della Commissione d’inchiesta. Cause individuate nella inadeguatezza della cultura di guerra dei comandi, ancorati a concezioni superate, come l’attacco all’arma bianca quale momento centrale dell’attacco. L’aveva codificato il Comandante generale Cadorna nella famosa circolare n. 191 del 25 febbraio 1915, quando già erano maturate esperienze di guerra su altri fronti. Diventerà un volumetto di 62 pagine, “Attacco frontale e ammaestramento tattico”, la cui filosofia può essere individuata nel concetto che solamente l’offensiva ad oltranza porta alla vittoria (“vincere è andare avanti”), attacco frontale e cariche di cavalleria, nonostante fosse ormai acquisito il ruolo residuale di questa Arma, dopo che, come aveva insegnato la guerra di secessione americana (1861-1865) ben cinquant’anni prima, l’invenzione della mitragliatrice aveva reso improponibili le cariche di lancieri e dragoni che con tanto onore avevano combattuto nelle guerre dell’800.

Non che i comandanti degli altri eserciti fossero più “moderni”. Erano cresciuti nell’800 ed erano stati educati al tipo di guerra che si era sviluppato in quel secolo, quando si combatteva con altre armi mentre i nuovi combattimenti ne avevano messe in campo di ben più micidiali. Esclusi i tedeschi, tra i quali emergevano alcune personalità che avevano maturato la consapevolezza delle nuove tecniche di guerra, i francesi avevano subito perdite molto superiori alle nostre in assurdi, inutili assalti a posizioni fortificate, come quelli, ripetuti, al famoso “formicaio” nel film “Orizzonti di gloria” di Stanley Kubrick, magistralmente interpretato da Kirk Douglas, un valoroso colonnello alle prese con un generale idiota.

Ad onor del vero se la conduzione di Cadorna fu inadeguata nei tragici eventi dell’ottobre 1917 alcuni meriti gli vanno riconosciuti nella fase di organizzazione dell’esercito nel 1915.

A Caporetto giocarono un ruolo essenziale non solamente la mancata previsione dell’attacco e, soprattutto, di misure adeguate in caso di ritirata, l’accertata confusione nella catena di comando, la disorganizzazione di molti settori dell’esercito che si trovò a confrontarsi con un efficiente apparato militare tedesco. Al comando di un valoroso generale prussiano Otto von Below, reduce da molte vittorie e con provata capacità strategica più volte dimostrata in manovre di aggiramento dei reparti nemici o manovre ad ala, che attuò anche a Caporetto. Con un piano di guerra originale che rompe con la dottrina e le consuetudini dello sfondamento in orizzontale e che farà meraviglie anche l’anno dopo contro gli anglo-francesi, sul fronte di Arras-LaFère, nelle Fiandre. Con lui generali di prim’ordine, con carriere brillanti, come Albert von Berrer, Herman von Stein e Konrad Krafft von Dellmesingen che di quegli eventi ci ha lasciato una descrizione particolarmente accreditata tra gli storici. Comandante dell’Alpenkorps, massimo esperto di guerra alpina dal “curriculum che avrebbe fatto l’invidia di Napoleone” (Weber) aveva ispezionato il fronte in vista di un possibile attacco. E l’8 settembre, rientrando al quartier generale tedesco ne riferì concludendo: “si può fare”.

Il resto è noto. In mancanza di piani di ritirata, che comunque fu ordinata in ritardo, rimasero in mano al nemico migliaia di soldati (35.000 tra morti feriti e 300.000 prigionieri), oltre 400.000 sbandati all’interno ed un ingente quantità di armi, cannoni, mortai e mitragliatrici, depositi di munizioni, automezzi e strutture preziose dell’apparato logistico. Senza contare il dramma delle popolazioni civili, un milione circa di profughi, l’abbandono della case, delle aziende, degli animali. Solamente la III Armata comandata da Emanuele Filiberto di Savoia Duca d’Aosta si sganciò con ordine dal nemico mantenendo pressoché intatti organici e artiglieria. Fu così pronta alla controffensiva di primavera tanto da meritare, nel bollettino della Vittoria, il 4 novembre 1918, l’aggettivo di “invitta”. Né va dimenticato in quelle tragiche giornate il ruolo della Brigata Sassari che ebbe il compito di proteggere la ritirata italiana. Il reparto dell’allora maggiore Giuseppe Musinu, l’ultimo soldato italiano a passare il ponte della Priula, pochi istanti prima che fosse demolito. Era l’ultimo sul Piave. Uno dei tanti casi di resistenza e di eroismo di singoli e di singoli reparti. Come spesso accade fanno più notizia gli episodi negativi, di chi si arrende senza combattere, che il valore di quanti saranno ricordati perfino da Rommel per il valore dimostrato nelle difficili condizioni nelle quali la lunga battaglia si è svolta.

Anche le polemiche che censurano gli errori e quelle che criticano coloro che gli errori hanno messo in risalto sono una esercitazione consueta che ha accompagnato le sconfitte nella prima e nella terza guerra di indipendenza e che ritroveremo dopo la Seconda Guerra Mondiale. Va respinta la denigrazione generalizzata dei combattenti ai vari livelli di responsabilità che ha accompagnato questi episodi ma va anche analizzata la verità dei fatti, laddove la modestia delle strategie e la incapacità di coordinare e di coordinarsi sono purtroppo ricorrenti nella storia militare italiana, da Novara a Custoza a Caporetto, appunto. Che ritroveremo ad Adua.

Una grave sconfitta che tuttavia risvegliò le migliori energie del Paese. L’esercito fu rinnovato ad iniziativa di Diaz, meglio equipaggiato, addestrato ed armato, con un’attenzione agli aspetti personali dei soldati ai quali furono assicurati migliore vettovagliamento e più adeguato abbigliamento, cambi e licenze capaci di rinfrancarli dopo le giornate passate in trincea. Furono organizzati spettacoli e giochi, e giornali arricchiti da firme preziose della letteratura e del giornalismo. Al fronte, inoltre, i combattenti sentirono che l’Italia intera era con loro. Cessarono le polemiche politiche, i distinguo sulla guerra, sui suoi scopi e sulla sua conduzione e gli italiani furono “un esercito solo”, come li aveva invitati ad essere il Re nel suo proclama dopo Peschiera, ed a giugno 1918 fummo in condizione di respingere la nuova offensiva austriaca, di vincere e di inseguire i reparti nemici che in fuga risalivano “in disordine e senza speranza le valli che avevano discese con orgogliosa sicurezza”. Ci sembra retorico, oggi, questo passo finale del “Bollettino di Guerra n. 1268”, dato dal Comando Supremo alle ore 12 del 4 novembre 1918. Ma metteva una pietra sopra Caporetto. E “ci sta”.


del Prof.Giulio Vignoli  

Re Savang VatthanaSono ben note in Europa e nel Mondo le modalità con cui vennero sterminate la Famiglia Reale francese e la Famiglia imperiale russa. La prima tramite l'uso della ghigliottina. Luigi XVI e Maria Antonietta, la sorella del Re, Madame Elisabetta, che volle rimanere vicina ai suoi congiunti; il bimbo dei Sovrani fatto morire in modo orrendo di stenti, di fame, di terribili malattie, tenuto in    covile immondi fra parassiti e percosse. La seconda massacrata in una cantina a colpi d'arma da fuoco  e di baionetta: Nicola II, la Zarina, le figliole giovinette e l'erede ragazzino.

 

   Ben poco conosciuta invece tranne, forse, in Francia la fine della Famiglia Reale del Laos.

Amedeo, il re in attesa

Nella casa di campagna del principe ereditario dei Savoia Aosta

 di Roberto Rosano

http://www.iuppiternews.it

Se, in quel lontano giugno 1946, i miei connazionali avessero scelto la monarchia, la persona che ho di fronte sarebbe stata il mio sovrano ed io un suo suddito. Per decisione della Consulta Regia è lui il legittimo erede al trono d'Italia, non suo cugino Vittorio Emanuele, che per questo gli ha assestato due cazzotti al matrimonio di Re Felipe di Spagna con Letizia Ortiz. È un re in costante condizione di reperibilità. Se un giorno in Italia tornasse la Corona, toccherebbe a lui cingerla sul capo. Amedeo di Savoia Aosta è qui, davanti a me. Ha le mani chiuse a pugno, come se pregasse. Dizione apprezzabile, un tono roboante, da ufficiale di marina, sedici tatuaggi. Mi ha accolto con raffinato garbo nella sua casa di campagna, in provincia di Arezzo, in un salotto pieno di cimeli e di oggetti, che di tanto in tanto addita e illumina di Storia, come un mago della wicca: quella è la spada di Vittorio Emanuele II! Quella bandiera spagnola è un dono di mio cugino Juan Carlos! Nelle sue vene scorre il sangue dello zar Nicola I, di Cristiano IX di Danimarca, che è suo trisnonno, come lo è la regina Vittoria. Perciò è, a sua volta, cugino della regina Elisabetta e dell'attuale re di Spagna... Per non indugiare nell'imbarazzo dinanzi a tanto lustro e sgarbugliarmi la lingua, lo ammetto, ho dovuto bere qualche bicchierino di prosecco freddissimo, che ha subito ristabilito in me spirito di uguaglianza e faccia tosta.

Altezza, Lei di chi è figlio?

Sono figlio di un ammiraglio che ha fatto le due guerre mondiali. Mia madre era greca. Era la terza figlia del vecchio re Costantino di Grecia. Mio padre era Aimone di Savoia Aosta. Per una questione curiosa di Hitler e di Mussolini, fu nominato re di Croazia, ma non ci andò mai. Era molto affezionato alla marina militare, che prendeva e doveva prendere tutto il suo tempo e il suo amore.

Lo stesso destino è toccato a Lei. Mi risulta che fu acclamato re dai monarchici croati...

No, no. Io sono nato che già tutto questo era sfumato. Mio padre non ha neanche mai abdicato, perché non è mai stato veramente re.

Ma è scritto su tutte le sue biografie...

Vede più le persone sono importanti e più ci sono delle fantasticherie intorno.

Non è vero neppure il nome con cui sarebbe stato acclamato re, Zvonimiro?

Non è vero! Secondo le usanze croate il figlio del re si sarebbe dovuto chiamare Zvonimiro, sì, questo è vero, ma io sono nato in tempo per non ricevere questo nome. So che è scritto su tutti i documenti, ma non è vero. Si fa presto a scrivere queste, perdoni, cialtronerie...

Procediamo per gradi. Il 27 settembre 1943, gli americani bombardano Villa La Cisterna, residenza della sua famiglia a Firenze e Lei nasce prematuro...

Di otto mesi, sì, sì. (Colpo di tosse). Mia madre stava scendendo nel rifugio, quando una contadina, che le era alle spalle, le cadde addosso. Così ruzzolò giù per le scale ed io nacqui dopo due giorni. Era un brutto momento per nascere, diciamo così... Eh, eh...

Ed è stato battezzato da Elia dalla Costa, cardinale arcivescovo di Firenze, Servo di Dio, Venerabile, amico di La Pira, di Bartali, concorrente di Pacelli al conclave del '39...

Dunque, sarebbe stato bello che mi avesse battezzato, ma questa è un'idea di qualche monarchico che pensa a me molto affettuosamente.

Insomma, ma c'è qualcosa di vero nelle sue biografie? In questo caso, però, non ha di che lamentarsi...

No, no, non mi lamento perché qualche monarchico attribuisce il mio battesimo ad un quasi santo, però bisogna essere onesti quando si parla ad un giornalista: non fu lui a battezzarmi.

È​ vero almeno che i tedeschi volevano rapirla e insediarla come re di Salò?

Questo sì, è vero. Hitler voleva contrapporre un membro della famiglia reale al nord al legittimo re d'Italia al sud. Mia madre disse: dovrete passare sul mio cadavere prima che mio figlio diventi re in contrapposizione ad un re che c'è già e che, per di più, è un nostro parente!

Il 26 luglio 1944, Himmler, ministro dell'Interno del Reich, il secondo uomo più influente della Germania nazista, firma un ordine che La riguarda: Lei, bambino di otto mesi, deve essere trasferito presso il campo di concentramento di Hirshegg insieme a sua madre e alle sue cugine...

Sì, sì, in Austria. Diciamo che non ci trattarono male come tutti gli altri, ma bene certamente no. Vivevamo tutti in una grande casa, che era una via di mezzo tra un albergo ed una caserma, in montagna, a millequattrocento metri. Ci nevicava tutto l'inverno ed eravamo senza riscaldamento, pensi un po' che doveva essere lavarsi la mattina...

Su “la mattina” l'accento toscano è balzato fuori come un coniglio dal cilindro...

(Ride fragorosamente) Eh, eh, la mattina! La mattina! L'ho un po' perso, ma, ogni tanto, sa...

Comunque...

Comunque, mangiavamo solo rape: rape lesse, rape crude, rape fritte... (Colpo di tosse) E poco di più... Con noi c'era l'ammiraglio Rizzo, un eroe della Regia Marina. C'era anche qualcuno della Repubblica di Vichy, che i tedeschi avevano rastrellato. Noi non eravamo prigionieri politici in senso stretto... Eravamo degli ostaggi...

Merce di scambio...

Esattamente! Con un ordine di fucilazione già firmato, ma senza data. Quindi, si trattava solo di mettere la data in alto al momento opportuno e noi... (Il principe ridacchia allegramente).

E quando la data fu aggiunta, Lei si salvò per miracolo, solo perché l'ufficio postale ricevente franò sotto i bombardamenti ed il fonogramma non arrivò mai...

Non solo. Ci hanno salvato, nel senso che ci hanno prelevato, i francesi di De Gaulle, quelli che erano sbarcati in Normandia...

Casa Savoia, di cui Lei è il capo riconosciuto, è stata genericamente sottoposta ad una condanna della memoria per l'arrendevolezza dimostrata da re Vittorio Emanuele III nei confronti di Mussolini e delle sue iniziative... Eppure, avete avuto dieci prigionieri di guerra e due morti in famiglia: suo zio Amedeo e Mafalda, l'anima bella...

Bravo, bravo, molto bravo!

Insomma, Mafalda, figlia del re d'Italia e soprattutto cittadina tedesca, principessa tedesca, nonché moglie di un ufficiale tedesco finisce in un campo di concentramento.

Una figura molto bella, molto bella. Morì nel campo di concentramento di Buchenwald ed anche lì conservò il suo animo buono e docile. Pensi che quando riceveva il suo pasto, lo divideva con gli altri. Non voleva neppure far sapere chi fosse. Ci fu un prigioniero italiano che la riconobbe. Disse: c'è la figlia del nostro re e lei si girò dall'altra parte...

Anche se, a onor del vero, furono i tedeschi ad intimarle di non rivelare la sua identità...

Vero, sì, difatti sulla sua tomba c'è scritto... Frau... Questo lo sa meglio di me, l'ha letto da poco...

Frau Von Weber, per scherno Frau Von Abeba, essendo principessa d'Etiopia...

Lei è giovane, è abituato a studiare... Eh, eh, eh...

E suo zio Amedeo, il fratello di suo padre, di cui porta il nome. Il duca di ferro. L'eroe dell'Amba Alagi.

Pensi che rimase trincerato sull'Amba Alagi, accerchiato dagli inglesi e dichiarò di voler lottare sino all'ultima cartuccia, all'ultimo goccio d'acqua. Gli inglesi lo ammirarono molto e resero l'onore delle armi agli italiani... Be' mio zio somigliava molto a loro, aveva studiato presso un collegio inglese, come tutti noi.

Eppure nell'immaginario comune pochissimi si aspetterebbero questa “schiena dritta”, diciamolo pure, questo coraggio da un Savoia!

Ma, vede, Vittorio Emanuele III lasciando Roma per andare a Brindisi, secondo me, aveva voluto soprattutto che ci fosse ancora un governo. Se i tedeschi avessero preso Roma, il Re ed il Presidente del Consiglio dei Ministri, con chi trattava il vincitore o l'alleato? Con nessuno! Vittorio Emanuele era lo stesso che fu chiamato re soldato: tutto il '18 lui l'ha vissuto in trincea, mangiando il rancio con gli altri soldati, che, per quindici, venti giorni di seguito, non si lavavano, non si cambiavano le scarpe, i calzini, le mutande... Questo stesso uomo non può essere fuggito via! Credo che la storiografia su di noi non sia sempre giusta, nel bene e nel male. Ogni tanto io ho letto giudizi positivi sul mio conto. Dicono sia intelligentissimo, dicono che abbia tre lauree...

A me risulta che ne ha una in Scienze politiche...

Ecco, anche questo non è vero... Non è vero... Questo me lo ha detto un altro monarchico... Io ho fatto l'accademia navale, due, tre esami di ingegneria navale etc macchine, disegno...

Parliamo di Napoli... Una città che dai Savoia e dall'Unità d'Italia ha guadagnato ben poco e certamente ha perso la sua centralità, il suo status di capitale... Eppure, ai funerali di sua nonna, nel '51, 25.000 persone omaggiarono la vostra famiglia, gridando Viva il re! La città era in tumulto... Al referendum del '46 Napoli si era già attestata su posizioni nettamente monarchiche... Lei come se lo spiega?

Ohhhhh, Napoli... Mamma mia! Ci hanno sommerso di affetto. Io non so neanche quanto me lo meritassi, ma mi ha sempre commosso. Il napoletano ha una generosità che non finisce. (Gli occhi del principe si velano di lacrime). Mi commuovo mentre lo dico, adesso...

Forse, perché Napoli è una delle ultime città italiane in cui esista ancora una plebe e la plebe va matta per i re, per i principi, per le fiabe e le corone...

Io non voglio deludere i borbonici e i savoiardi, ma siamo parenti stretti coi Borbone Sicilia. Abbiamo più di venti matrimoni tra le due famiglie. L'ultimo nipote maschio, Umberto - non abbiamo molta fantasia coi nomi in famiglia - è stato battezzato da un principe di Borbone Sicilia, un sacerdote Borbone. (Mentre parla armeggio con un foglio per scacciare le mosche!). Mi spiace ma ci sono le mosche qui! Dicono sia per colpa del brutto tempo che si rifugiano qui! Ah, ah, ah...

Ho scoperto che anche la casa di un principe ereditario può essere piena di mosche! Si andava dicendo...

(Risata). Le racconto una cosa: una volta ci fu una grande cerimonia in una chiesa di Napoli, Santa Chiara, e si uscì insieme coi parenti Borbone. Il principe Ferdinando, che era il capo famiglia, adesso è morto, ebbe un applauso fortissimo: Borboni! Borboni! Io uscii subito dietro e i napoletani: Savoia! Savoia! Ci abbracciammo...

Lo sa che poi hanno parlato male di Lei e dell'altro, vero?

Sì, sì. (Grassa risata). Tutto questo fa parte di un cuore che loro hanno! Mi creda non mi dà nessuna noia che sia borbonico, perché in fondo di monarchia si tratta. (La risata contagia anche me e dura diversi istanti). La faccio ridere! Ah ah ah ah Sarà contento il cugino Carlo di quello che sto per dire, ma la reggia di Caserta... Che gioiello!

Sapevano che vor'dì campa' i cugini Borbone eh! Mica cotica!

Oh, oh, oh, La prego, La prego... Sfumi, La prego (Si sbellica...). Si ricordi che sono il Capo di Casa Savoia! Sto ridendo troppo, io di solito sono molto più abbottonato...

Suvvia, Altezza, si rilassi... Siamo in Repubblica! Ai bottoni non teniamo più!

È che Lei è molto simpatico e quando è così io mi lascio andare...

Re Faruk d'Egitto diceva che in Europa sarebbero rimasti solo cinque re: i quattro nel mazzo e quello d'Inghilterra... Eppure, le monarchie in Europa sono ancora ufficialmente dodici. Come se lo spiega? E come si spiega che, paradossalmente, i Paesi con re e reucci, per quanto la monarchia possa essere giudicata obsoleta, anacronistica, comicamente cerimoniosa, siano sotto il profilo civile e politico i più moderni, i più progrediti...

La monarchia è un qualche cosa che dà equilibrio alla Nazione, perché, vede, un sovrano non è stato eletto. Questa è la prima critica repubblicana alla monarchia, perché noi nasciamo per essere re. Ma io la rovescio: sì, è vero, però non essendo stati eletti da un ramo del parlamento i re possono essere davvero al di sopra delle parti. E poi: il principe ereditario viene educato in modo molto severo e attento... Gli esempi sono molto positivi, a parte qualcuno, ma, insomma, siamo umani!

Marx diceva che la monarchia è il trionfo della zoologia, perché, ci pensi bene, in fondo dipende tutto dallo spermatozoo che arriva prima. Se quello spermatozoo si chiama Elisabetta II d'Inghilterra, ci va bene, ma se si chiama Attila, Vlad III, Ludovico II di Baviera o Carlo VI di Francia, siamo in mano a pazzi scatenati fino a che crepino mica per sette o quattordici anni.

(Il principe ride di gusto). Lei ha un ottimo senso dell'umorismo, ragazzo! In fondo la monarchia è un fatto tribale. Cioè del popolo. Non è delle élite intellettuali... Deve dare il buon esempio proprio perché incarna lo spirito del popolo. Guardi il Meridione, lo dicevamo prima...

Ha fatto caso che le organizzazioni criminali assomigliano molto, nel loro ordine di gradi e cariche, ad una monarchia...

La Sacra Corona Unita... Già la parola! (Il principe ride, ma più sommessamente). Però, per carità, non bestemmiamo! Non bestemmiamo!

Mi stavo chiedendo che idea si sia fatto della questione catalana... Re Felipe, suo cugino, è contrario, anche perché se la Catalogna sarà, sarà una Repubblica...

Il secondo figlio di Vittorio Emanuele II, Amedeo, duca d'Aosta, mio bisnonno, fu incoronato re di Spagna. Pensi che questo povero Amedeo fu mandato a governare senza sapere una parola di spagnolo.

Non ci credo...

Sì, è vero, l'ha imparato lì. La Spagna era un grosso disastro, ci sono sempre state fazioni spagnole che si facevano la guerra. Il mio bisnonno ha cercato di mettere pace con una Costituzione mantenuta a denti stretti. Felipe ha solo difeso quella Costituzione, perché è questo il nostro dovere, questo ci insegnano sin da bambini. Capisco le loro ragioni, ma possono rivendicarle, come dire, a modo.

Altezza, mi scusi conosce un Paese al mondo che sia nato a modo? Il nostro Paese è nato a modo? È​ nato legalmente? Non è, forse, nato dall'invasione di uno Stato sovrano guidata da un suo parente e dal suo primo ministro?

Ha ragione, ma vede il re di Spagna, già citato, mio bisnonno, aveva un altro progetto per l'Italia: mantenere i sovrani più importanti e fare una federazione con a capo Vittorio Emanuele II, perché diceva, e questo farà contento il cugino Carlo e gli amici borbonici, che i Borbone erano più adatti dei piemontesi a governare il sud.

Lei pensa, a proposito della diversità italiana da Bressanone all'ultima isola siciliana, che la monarchia avrebbe gioco migliore...

Sì, la corona è sempre stata in difesa delle minoranze: etniche, linguistiche... Un esempio è quello del Belgio, il cui sovrano legge un discorso in francese, volta pagina e lo rilegge in fiammingo.

A proposito, è vero che ai tempi del cosiddetto Piano Solo, il colpo di Stato organizzato dal generale De Lorenzo, Lei rischiò di salire al trono?

Sì, c'era un'atmosfera molto strana, di cui ci siamo resi conto solo dopo. Eravamo molto, molto sorvegliati, non so se sorvegliati o protetti. Ci accorgemmo di essere seguiti da una macchina della polizia di Stato. Ci fermammo per chiedere spiegazione e ci dissero che era per la nostra sicurezza.

Perché non si sono mai manifestati, dicendole che c'era un piano di protezione della sua persona?

C'era un disegno, più che un piano... Uhm, Le dico delle cose nebulose, perché c'era molta nebbia ai tempi, sa! Molte cose dette e non scritte.

Nebbia democristiana...

Era il loro fascino, sa? Ah, ah, ah!

La nebbia rende le cose così accattivanti, Altezza! Bagehot, autore della Costituzione Inglese, diceva che il successo della monarchia dipende dal suo mistero. Fate in modo che il sole mai la illumini! Oggi, la nebbia si è diradata, voi reali somigliate ai pesci in un acquario...

O agli animali nello zoo!

Fidanzamenti, matrimoni, litigi, adulteri, figli, nipoti, gelosie, invidie... La vostra umanità è venuta fuori. Sotto le luci al quarzo della televisione anche voi siete apparsi umani.

Siamo famiglie come tutte le altre. Questa è la verità, ma sarebbe meglio si pensasse che siamo migliori, la nebbia in questo caso aiuterebbe l'istituzione. Mi segue?

Lei sarebbe disposto a servire il suo Paese anche in Repubblica, come è accaduto a Simeone II in Bulgaria, che dopo essere stato re, è stato primo ministro?

Certamente sì, ma non come primo ministro, cosa che richiederebbe una preparazione al dettaglio. Potrei essere un bravo capo di Stato, sono stato educato per questo.

Un re come Presidente di una Repubblica?

Perché no!

Sa che in cinese il carattere che sta per re è una linea che interseca altre due, una in alto per il cielo ed una in basso per la terra. Il re è sempre stato visto un po' come un negoziatore... Lei in che rapporti è con Dio?

Ottimi, pensi che ho conosciuto cinque pontefici! (Mi indica una foto incorniciata in cui posa insieme a papa Luciani).

Lo sa che quello è il mio papa preferito? Ha regnato poco, però, come suo zio Umberto.

Lo stesso numero di giorni: trentatré! Mi ripeto, Lei è un ottimo osservatore.

Ma quando Lei studiava la storia, da bambino, era come sfogliare l'album di famiglia...

È pesante avere una storia così. Quando Licio Gelli venne a propormi di entrare nella massoneria, mi disse: così Lei avrà dei cugini. Risposi: ne abbiamo già tanti noi di cugini.

Con che spirito vive la festa del 2 giugno? Per me era il giorno vicino alle vacanze estive in cui non si andava a scuola. Per Lei?

Il giorno della cassa integrazione! (Risata). Però, la seguo in televisione. Mi piace veder la parata, la trovo molto bella. Del resto, tutte quelle unità militari le abbiamo costituite noi. Adesso sembra che tutto sia iniziato con la repubblica.

In occasione della commemorazione dell'assassinio di Umberto I a Monza, nel 2000, Ciampi si rifiutò di inviare una corona di alloro da mettere sull'altare delle celebrazioni. Le ha dato noia?

Disse che il popolo italiano doveva ricordarsi che c'era stata una cesa tra monarchia e repubblica. Una cesa! Bravo Lei che se lo ricorda! Molta. Moltissima noia.

Si aspettava che un Presidente di origine comunista come Napolitano, invece, facesse la scelta inversa, tributando onore a Vittorio Emanuele II al Pantheon.

È stato anche fascista, Napolitano, lo sa? Era iscritto al Guf.

Suvvia, Altezza! So dove vuole arrivare, ma è tutt'altro conto...

Ah, si? E perché solo noi Savoia eravamo dei delinquenti, no, scusi! Gli altri hanno tutti le mani pulite! Poi si scopre che c'è stato un tempo in cui i più insospettabili erano fascisti... Cosa fa: è finito il nastro?

Direi che può bastare, prendo una caramella, che mi si è asciugata la gola... Vuol favorire?

Sì, grazie. Me la merito?

Non La facevo così simpatico, Altezza... In televisione è sempre così impettito...

Ha visto! Ah, ah, ah. Merito suo... Mi scusi, ma quanto è alto Lei?

Un metro e novanta.

La vedrei bene come corazziere.

Al Quirinale. Io su una bel cavallo di razza irlandese, con elmo e sottogola, Lei con la corona... Un'altra Storia, eh!

Ah, ah, ah, ah. E così si congiurava insieme!