del Prof. Salvatore Sfrecola

tratto dal sito: www.unsognoitaliano.it

Non è raro che nella analisi dei fatti della politica vengano confusi cause ed effetti. E così, a proposito della rappresentazione che, alla ricerca di una maggioranza di governo, in questi giorni i partiti offrono ai cittadini Angelo Panebianco, in un editoriale sul Corriere della Sera del 28 aprile (“I veri poteri forti. Stereotipi (e bugie) sull’Italia di oggi”) fa intendere che la situazione di stallo sia dovuta all’assenza, nelle consultazioni, delle delegazioni dei “poteri forti”, che indentifica nei vertici delle magistratura (ordinaria, amministrativa, costituzionale) e nella dirigenza amministrativa.

Lettore attento e, il più delle volte ammirato del politologo bolognese, non solo per quel che scrive sul Corriere ma anche per i suoi saggi, stavolta non concordo. Non condivido, in particolare, la tesi che “gli orientamenti di queste tecnostrutture statali sono cruciali”. Nel senso che, secondo Panebianco, “può anche formarsi un governo senza la loro benedizione ma in tal caso la sua navigazione sarà inevitabilmente agitata e precaria, e i suoi esponenti saranno costantemente a rischio di decapitazione politica”.

Già in queste frasi è evidente che quei poteri sono “forti” esclusivamente perché la politica è debole. Per una elementare constatazione, comune a quanti sanno di diritto. Sono i partiti che, in Parlamento e al Governo, scrivono le regole dell’amministrazione e della giustizia, i settori nei quali il Paese offre il peggio si sé, una burocrazia asfissiante e inefficiente, un fisco rapace, la mancanza di certezza delle regole. Tutto ciò che sconsiglia ad investire in Italia, tanto gli italiani quanto gli stranieri. Entrambi, infatti, trovano migliori occasioni di lavoro a pochi chilometri di distanza dai nostri contini, in quella Europa che avrebbe dovuto assicurare a tutti lo stesso fisco e gli stessi oneri di lavoro.

Mi sembra sufficiente per affermare che la politica è venuta meno al proprio ruolo che è quello di presentare ai cittadini una proposta di governo che, se condivisa dal corpo elettorale, diventa indirizzo politico dell’esecutivo. Se non si passa dalla promessa alla realizzazione ciò non può essere addebitato al “poteri forti”, amministrativi o giudiziari. Ciò è avvenuto, scrive Panebianco, quando “con la fine della Guerra fredda finì anche l’era del predominio dei partiti sulla vita pubblica”.

Troppo semplice. In realtà, fino a “mani pulite”, l’inchiesta sulla corruzione che da Milano ha decapitato i partiti che fino ad allora avevano gestito il potere in assoluta condivisione, chi dal governo chi dall’opposizione, la politica della Democrazia Cristiana e dei suoi alleati aveva seguito l’onda benefica dell’impegno pressante nella ricostruzione post bellica affidata alla Pubblica Amministrazione e alle società a partecipazione statale. L’Italia, distrutta dalla guerra, è stata rimessa in piedi da una struttura pubblica della quale oggi pochi ricordano il nome “il genio civile”, mentre gli enti pubblici economici, l’Istituto per la Ricostruzione Industriale (I.R.I.) l’Ente Nazionale Idrocarburi (E.N.I.), l’Ente partecipazione e finanziamento industria manifatturiera (E.FI.M) e la Cassa per i Mezzogiorno realizzavano le grandi infrastrutture e assicuravano migliaia di posti di lavoro. Quel potere politico forte fu definito “partitocrazia” da Giuseppe Maranini perché occupava ogni poltrona, distribuendo il potere tra i partiti e le correnti dei partiti con la regola ferrea del “manuale Cencelli” basata sulla misura del consenso elettorale. I “boiardi” di Stato, come venivano definiti i dirigenti degli enti pubblici e delle società a partecipazione statale, facevano riferimento ai capi delle correnti delle quali alimentavano le casse, per finanziare giornali, organizzare i convegni con i quali ci si collegava alle categorie della cultura e del lavoro ed i congressi nei quali, il più delle volte, prevaleva chi disponeva delle risorse necessarie per comprare un numero adeguato di tessere.

Il denaro proveniva dalle imprese che, adeguatamente aiutate a prevalere nelle gare di appalto, si aggiudicavano lavori e forniture per molti miliardi (di lire). Il 3 luglio 1992, nel bel mezzo delle inchieste della Procura della Repubblica di Milano, Bettino Craxi, parlando alla Camera dei deputati, fu implacabile: “tutti sanno che buona parte del finanziamento politico è irregolare o illegale”. Il finanziamento dei partiti e delle strutture andava avanti così da anni. Ma va anche detto che le opere si facevano e il PIL cresceva.

Caduti i capi storici della partitocrazia, AndreottiForlani, e gli altri “cavalli di razza” della D.C. e non solo, sono giunti al potere quelli delle seconde e terze file, gente modesta con scarsa esperienza della politica e dell’amministrazione che ha cercato soprattutto a tirare a campare, a sopravvivere dimenticando l’insegnamento di De Gasperi, secondo il quale “la differenza fra un politico ed uno statista sta nel fatto che un politico pensa alle prossime elezioni mentre lo statista pensa alle prossime generazioni”.

E così, in assenza assoluta di statisti degni di questo nome, la politica “debole” ha cominciato a smantellare quello che poteva apparire un potere “forte”, la Pubblica Amministrazione, dimostrando, fra l’altro, di ignorare che le realizzazioni dei governi passano attraverso la capacità degli uffici dell’Amministrazione pubblica di realizzare il programma di governo. Si è così operato su un doppio binario, quello della disarticolazione delle strutture amministrative, secondo la tradizionale regola del “divide et impera”, attraverso la moltiplicazione degli uffici e dei posti di funzione, molti dei quali sono stati assegnati, sulla base dello spoyl sistem ad estranei di provata fede politica ma, il più delle volte, di modesta preparazione professionale spesso senza alcuna esperienza. Con la conseguenza che la politica ha finito per alienarsi la simpatia dei funzionari vincitori di concorso i quali hanno visto frustrate le loro aspettative di carriera per cui, mortificati nella loro dignità di servitori dello Stato, hanno risposto nell’unico modo per loro possibile, con l’inefficienza. Nella maggior parte dei casi riducendo l’entusiasmo nell’esecuzione del lavoro.

Analoga situazione si è verificata nelle magistrature, soprattutto amministrativa e contabile, cioè la Corte dei conti (dimenticata da Panebianco) i cui vertici sono stati falcidiati dalla normativa che ha ridotto i limiti di età. Renzi lo ha fatto ritenendo (o essendogli stato fatto ritenere) che così avrebbe fatto un piacere ai più giovani, anche per aver escluso dai ruoli di grand commis d’Etatcoloro che avevano consentito ai Presidenti del Consiglio ed ai ministri di avvalersi di loro come Capi di Gabinetto, e degli Uffici legislativi o consiglieri giuridici. Funzione che so controversa ma che, se attribuita a personalità con alto senso dello Stato, non ha mai fatto confusione sui diversi ruoli ma favoriva buona amministrazione e buona legislazione. Ricordo che, da giovane funzionario, prestai servizio nel 1979 alla Presidenza del Consiglio dei Ministri il cui Ufficio legislativo (oggi Dipartimento per gli affari giuridico e legislativi – DAGL) era retto da Giuseppe Potenza, Presidente di Sezione del Consiglio di Stato, chiamato con timoroso rispetto “il legislatore”, autore, insieme a Guido Landi, di quel Manuale di Diritto Amministrativo sul quale si sono formati migliaia di pubblici funzionari e magistrati.

Allo sbaraglio, come ha dimostrato massimamente il Governo di Matteo Renzi formato da politici di scarsa o nessuna esperienza e preparazione professionale che si è dilettato nel fare la guerra a funzionari e magistrati, il governo è nel guado e non c’è dubbio che a lungo vi rimarrà perché gli errori si pagano nel tempo, come quelle derivanti dalle “leggi Bassanini”, delle quali lo stesso autore si sarebbe pentito, le quali hanno alterato l’assetto delle amministrazioni senza che al preesistente si sostituisse un quadro normativo ed operativo più moderno ed adeguato alle esigenze del momento.

Poteri forti? Macché, caro Professore Panebianco, classe politica debole, anzi debolissima, senza esperienza dacché nella tanto vituperata prima repubblica nessuno avrebbe pensato di mettere a presidente del Consiglio una persona con la sola esperienza di sindaco di Firenze, città bellissima, nel cuore di tutti gli italiani, ma con un numero di abitanti pari a quelli di un municipio di Roma, o ministro delle infrastrutture e dei trasporti (già dei lavori pubblici, dei trasporti e della marina mercantile, da far tremare i polsi di un politico di lungo corso) un Graziano Delrio, già sindaco di Reggio Emilia, una città con poco più di 100 mila abitanti. Per non dire di Maria Elena Boschi, messa a studiare nientemeno che la riforma della Costituzione, e di Marianna Madia con zero esperienza, come si sapeva e come si è potuto verificare, incaricata della Pubblica Amministrazione e dell’innovazione, un ministero chiave dove si dovrebbe studiare il modo di far funzionare più celermente e con meno burocrazia. E si invia in Europa quale responsabile della  politica estera e di sicurezza comune e Vice presidente della Commissione europea  Federica Mogherini le cui dichiarazioni pubbliche sono di una imbarazzante ovvietà. “Lavoriamo per la pace” è la sua frase preferita.

Questi i problemi dei partiti, del governo e del Paese. Altro che dietrologie sui poteri forti. Che anche se fossero effettivamente forti dovrebbero battere il passo dinanzi ad una politica autorevole. In fin dei conti lo riconosce Panebianco per il quale “l’incultura di molti parlamentari contribuisce al risultato (riassumo: l’incapacità di far fronte ai problemi economici e finanziari del Paese; n.d.A.) ma la sudditanza della politica rispetto all’amministrazione (la sola in possesso delle competenze tecnico-giuridiche) fa sì che su quest’ultima ricadano responsabilità pesanti. O si pensi ai gravissimi danni economici a carico della collettività prodotti da avventati procedimenti giudiziari contro aziende, i quali, molti anni dopo, finiscono, spesso, con assoluzioni «per non aver commesso il fatto». Per formazione (esclusivamente giuridica) e per forma mentis , gli esponenti di quelle tecnostrutture sono spesso refrattari a qualunque calcolo economico, e disinteressati – quando non ostili per principio- alle esigenze di aziende e mercati”.

Dunque, come ho scritto iniziando, si confondono le cause con gli effetti.

2 maggio 2018

È passato qualche mese da quando le salme del Re Vittorio Emanuele e della Regina Elena sono state traslate a Vicoforte.

Gli italiani che non dimenticano hanno sempre saputo che le loro dimore provvisorie, Alessandria d’Egitto e Montpellier, subite ma mai accettate, sarebbero solo state un passaggio verso quella definitiva, di spettanza dei Re d’Italia, il Pantheon di Roma.

Se, per settanta anni, abbiamo visto i manifesti pubblicati dall’Unione Monarchica Italiana, raffiguranti il Re Soldato e, dal 1983, il Re Umberto II, commentati dalla scritta “Il Pantheon li attende”, per i prossimi settanta, ove fosse necessario, l’Unione Monarchica Italiana continuerà a considerare il Santuario di Vicoforte, al pari della Chiesa di Santa Caterina, ad Alessandria e del cimitero di Montpellier, una sistemazione provvisoria, in attesa della definitiva nel Tempio che la città di Roma volle consacrare ai Sovrani dello Stato Unitario, come più volte ricordato dal compianto Re Umberto II.

I monarchici che non dimenticano subiscono, ma non accettano.

Alessandro Sacchi

Presidente Nazionale UMI

Ricorre quest'anno il centenario della Vittoria dell'Italia nella Prima Guerra Mondiale 1918-2018. La Pro Loco di Cerignola ha organizzato per sabato 28 aprile 2018 presso la Sala Convegni del Polo Museale Civico di Cerignola (Foggia) una conferenza per fare Memoria dello storico evento. La serata presentata dalla Dott.ssa Maria Vasciaveo, componente della locale Pro Loco, e moderata dal giornalista Franco Tempesta   si è aperta con i saluti del Prof. Antonio Galli, Presidente Pro Loco Cerignola, e del Rag. Oronzo Cassa, Segretario Nazionale U.M.I.  Sono intervenuti il Dott. Michele Spadavecchia, studioso di storia, e l'Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale U.M.I.  a cui sono state affidate le conclusioni, il quale ha incentrato il suo intervento sulla figura di Re Vittorio Emanuele III il "Re Soldato". È stata inoltre deposta alla presenza delle Istituzioni comunali e delle Associazioni d’Arma dal Presidente Sacchi una corona di alloro sulla lapide che ricorda i caduti nella Grande Guerra sulla facciata del vecchio Municipio di Cerignola.

il tavolo dei relatori

L'intervento dell'Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale dell'U.M.I.,

davanti al monumento ai cauduti della Grande Guerra di Cerignola (FG)

di Salvatore Sfrecola

dal sito:www.unsognoitaliano.it

 

“Ha senso scrivere della Monarchia oggi? Proprio nel 2018?”. Se lo chiede nella prefazione al libro, ed è una domanda retorica, Amedeo di Savoia. E la risposta è SÌ.

Sì, perché questa bella intervista di Adriano Monti Buzzetti ad Alessandro Sacchi ha il coraggio di andare controcorrente, perché osa sfidare i “dogmi” della cultura dominante.

Sì, perché – ai giovani che sono il nostro domani – dice che quei valori irrisi, vilipesi, respinti, non sono affatto superati per la semplice ragione che sono permanenti, sono parte integrante della coscienza dell’uomo.

Sì, perché spiega che senza autorità non c’è libertà, senza disciplina non c’è ordine, senza merito non c’è giustizia, senza solidarietà non c’è coesione sociale.

Sì perché la Monarchia è il legame, il vincolo, il simbolo dei valori fondanti della società più giusta che si vuole costruire.

Sì, perché la Monarchia, affondando le sue radici nella storia e nella memoria, può rappresentare la guida verso l’avvenire.

Sì, perché la Monarchia è un principio, è il principio da cui dobbiamo ripartire”.

Sintesi efficace, questa offerta dal Principe sabaudo, delle ragioni dell’attualità della istituzione monarchica autorevolmente attestata dagli ordinamenti di molti stati europei, tra i più sviluppati ed i più virtuosi. Laddove il Sovrano incarna la Nazione, con la sua storia, e la continuità dello stato, dal Regno Unito alla Danimarca, dalla Spagna, che difende la sua unità contro attentati separatisti, alla Norvegia, al Belgio, nel quale la presenza del Re consente di mantenere in limiti politicamente fisiologici l’antico contrasto tra fiamminghi e valloni. E, poi, la Svezia, l’Olanda, paesi civilissimi partecipi dell’Unione Europea senza perdere il senso della sovranità nazionale e della identità di quei popoli.

Seduti al Gambrinusil Gran Caffè la cui storia inizia con l’Unità di Italia e diventa in breve tempo il salotto del bel mondo napoletano, “Fornitore della Real Casa”, Alessandro Sacchi, Avvocato cassazionista, dal 2010 Presidente dell’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), conversa con Adriano Monti Buzzetti Colella, giornalista RAI e conduttore TV. È così che prende forma questo agile volume ricco di spunti storici e di riflessioni politiche utili per disegnare un futuro possibile e sperato per restituire all’Italia e agli italiani la dignità del ruolo che compete alla storia di questo straordinario popolo nel contesto europeo e mondiale. Per uscire dal disagio attuale della vita politica italiana, delle istituzioni e della società civile definita la “morta gora della nazione, intesa come identità prima ancora che come “complesso di persone che hanno comunanza d’origine”, tanto per citare la Treccani”. E così il dialogo tra il giornalista e il politico si sviluppa proprio sulla base di quella sete istintiva di valori identitari che caratterizza tutte le generazioni e le culture in qualche modo “orfane” dei loro “miti fondativi”. Ed è il tema del momento, dacché è facile constatare come questo Paese abbia perduto il senso dell’identità, dell’appartenenza, ancor più evidente nell’anno centenario della grande guerra 1915 1918 che, per quanti hanno a cuore il valore dell’unità d’Italia, è soprattutto la quarta guerra d’indipendenza, quella che ha portato i confini della Patria oltre Trento e Trieste. In una stagione nella quale Corte costituzionale e Consiglio di Stato hanno dovuto ricordare ad una istituzione universitaria, la quale aveva previsto corsi esclusivamente in lingua inglese, che non si può prescindere nell’insegnamento dall’italiano perché la lingua identifica un popolo, la sua storia, l’essenza del suo essere proiettato verso l’avvenire. Tutto questo mentre si odono pericolose, ricorrenti pulsioni antiunitarie nella contestazione, non ragionata e non basata su documenti veri dei limiti, inevitabili e da ogni persona di onestà intellettuale riconosciuti, di alcune fasi della integrazione delle regioni meridionali nel nuovo Stato unitario che ha avuto origine il 17 marzo 1861.

Convinti che l’unità sia un valore non storico non sentimentale, un valore autentico che fa di una massa di uomini e di donne un popolo, quel popolo in nome del quale i giudici in Italia pronunciano le loro sentenze, si dipana il colloquio fra il giornalista, scrittore raffinato e colto, e l’avvocato napoletano, gioviale e carismatico, acclamato Presidente dell’U.M.I nel 2010, succedendo a Sergio Boschiero che aveva tenuto alta la fiaccola della Monarchia lungo gli anni difficili del 68, identificato come periodo storico che ha squassato profondamente l’animo e lo spirito politico delle generazioni del dopoguerra. Sacchi è stato chiamato alla Presidenza dell’Associazione, che è politica ma non partitica, per scrivere una nuova pagina del monarchismo in un confronto attivo con le istituzioni repubblicane per rappresentare ad essi ed al popolo italiano una alternativa. E già con la partecipazione attiva alla campagna referendaria del 2016, battendosi per il NO, Sacchi ha dimostrato di voler cambiare e innovare nello spirito e nella prassi dell’azione dei monarchici italiani nella difesa della democrazia parlamentare con la quale è nato lo Stato unitario, contro le semplificazioni spacciate per innovazioni ma nella realtà finalizzate alla gestione autoritaria de potere. Difende il Parlamento bicamerale ma entra in polemica innanzitutto con l’articolo 139 della Costituzione il base al quale “la forma repubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale”. Una limitazione che costituisce una lesione gravissima della democrazia che ha alla base la sovranità del popolo. Sacchi ricorda, al riguardo, che alla stesura della Costituzione nel 1946-1947, hanno concorso molti consultori di fede monarchica che identifica anche nei circa 70 che non approvarono la Costituzione del suo complesso. Uomini di pensiero, da Luigi Einaudi a Benedetto Croce, portatori dei valori dello Stato risorgimentale, liberale e democratico, i quali hanno concorso con la loro fede nella libertà a scrivere le norme sui diritti, memori di una tradizione costituzionale, quella dello Statuto Albertino del quale Piero Calamandrei, repubblicanissimo, diceva in Assemblea Costituente il 4 marzo 1947, parlando dello stile e della chiarezza che deve caratterizzare una costituzione, “guardate come era semplice e sobrio; ed ha servito a governare l’Italia per quasi un secolo”.

Monti Buzzetti richiama le condizioni attuali dell’Italia, alle prese con mille problemi, dal debito pubblico alla disoccupazione giovanile e gli chiede perché mai il nostro Paese “dovrebbe sobbarcarsi anche l’onere di un bouleversment così radicale?” Aggiungendo “cosa ti fa ritenere che ne valga davvero la pena?”.

Per Sacchi l’Italia è cambiata rispetto al 1946 “e sono cambiati gli italiani: è consentita una mobilità ed è permesso uno scambio di opinioni inimmaginabili, anche grazie ad Internet, soltanto fino a pochi anni fa. Gli italiani viaggiano e confrontano e nella comparazione con figure come i giovanissimi sovrani di Belgio, Spagna e Olanda, ma anche nelle rasserenanti figure al vertice di Gran Bretagna o Danimarca, la partita dura poco…”. E viene in mente il giovane erede al trono di Danimarca che accompagna i figli a scuola in bicicletta, mentre i politici di casa nostra che non si muovono se non con l’auto blu e percorrono le strade di Roma a sirena spiegata quasi non volessero avere contatti con la gente né percepirne i problemi, proprio a cominciare da quelli del traffico che pesano sulla vita quotidiana di lavoratori e studenti, dei padri e delle madri di famiglia impegnati ad accompagnare a scuola i figli prima di recarsi al lavoro. Uno stridente contrasto tra la normalità dei membri di una famiglia reale e la ricerca dello status simbol di una classe politica modesta formata da persone molte delle quali sono giunte ad assumere posizioni di responsabilità senza esperienze pregresse, politiche, professionali e umane, quelle che, si è detto scherzando, fanno sì che il politico non sappia rispondere alla domanda “quanto costa un litro di latte?” perché mai lo aveva personalmente comprato.

Vi è una importante considerazione che fa Alessandro Sacchi dopo aver parlato di Francia e Spagna e del senso alto della unità, quel sentimento che sulle rive della Senna “antepone il concetto di Patria a qualunque ne sia la sua espressione istituzionale. La Francia viene prima di tutto, con i suoi Re, le sue rivoluzioni, Napoleone e Marianna”. E sottolinea come “in Italia, dopo il 2 giugno 1946, vi è stata una demolizione sistematica dei valori fondanti, che affondavano le radici dell’epopea risorgimentale, consegnando l’opinione pubblica alle tentazioni separatiste di certa politica settentrionale o a conati revanscisti di certo revisionismo borbonico. Senza passato e senza futuro, le une e gli altri”. Perfettamente in linea con Indro Montanelli, giornalista e storico raffinato, il quale nell’avvertenza che apre il suo volume “L’Italia della Repubblica", da poco tornato nelle librerie e nelle edicole, in abbinamento al Corriere della Sera, scrive che “di coloro che avevano votato Repubblica… pochissimi si erano resi conto che, con la Monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità… scomparso anche quello, il Paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione”.

Ed a proposito di pulsioni antiunitarie irresponsabilmente coltivate da alcune forze politiche, soprattutto meridionali, Sacchi denuncia “il mito, costruito ad arte ad opera di disinformatori, o peggio, di falsari … alimentato da chi preferisce cullarsi nel rimpianto delle false occasioni perdute. In realtà la più alta percentuale di analfabetismo e la totale assenza di qualunque garanzia costituzionale, ponevano le Due Sicilie alla pari di un qualunque potentato africano. Né giova ricordare che Napoli fosse definita a quell’epoca una delle più belle città del mondo. Per capire come andassero le cose bisogna leggere i memoriali di quelli che c’è, spesso stranieri come il primo ministro britannico William Gladstone, che definì Napoli (in realtà “il regno borbonico”, n.d.A.) “La negazione di Dio elevata a sistema governativo”. O testimonianze di patrioti, come Luigi Settembrini, che conobbe il carcere duro per reati che oggi definiremmo “di opinione” e che farebbero inorridire se oggi fossero puniti.

La verità è che i Borbone, come le altre dinastie preunitarie “avevano già perso l’appuntamento con la Storia nel 1848 quando, per effetto dei moti rivoluzionari che avevano infiammato l’Europa, tutti i Sovrani si affrettarono a concedere gli statuti ma tutti, non appena ne ebbero la forza o ne intravidero l’opportunità li revocarono. I Savoia no”. La prova dell’assenza di libertà di opinione, di riunione, di associazione, di religione e data dalle migliori menti delle Due Sicilie che “furono costrette all’esilio dall’ottuso governo duosiciliano o conobbero il carcere e qualche volta il patibolo”.

Ancora qualche riferimento storico alle condizioni sociali del Sud, economiche e sanitarie, per ricordare un episodio di famiglia sull’accoglienza che ebbe Garibaldi a Napoli quando un regno si sfaldò nel giro di poche settimane e si sofferma su alcune risibili ricostruzioni di eventi del brigantaggio o gli altri come quello del carcere di Fenestrelle, cui i neoborbonici ricorrono di frequente, demolito dalla puntuale e documentata ricostruzione di Alessandro Barbero nel libro “I prigionieri dei Savoia”.

La conversazione si dipana lungo gli eventi che nel corso del Risorgimento hanno visto fiorire da ogni angolo d’Italia iniziative di uomini di pensiero e di azione le quali hanno generato un moto inarrestabile in favore dell’unità d’Italia non appena il Re di Sardegna Carlo Alberto, rispondendo alla chiamata dai milanesi in rivolta contro l’Austria, passò il confine al comando delle truppe alle quali aveva consegnato la bandiera tricolore alla quale aveva aggiunto, nel bianco, lo stemma della Casa di Savoia. Una scelta, quella del Sovrano che non verrà mai meno e che farà del Piemonte il punto di riferimento dei patrioti di tutta Italia, anche di quanti si erano mossi per richiedere l’unificazione in forma di repubblica. Come Mazzini che nel settembre 1859 scrive a Re Vittorio Emanuele II “vi chiamo a porvi a capo d’una rivoluzione nazionale. Vi chiamo ad una iniziativa che può divenire una iniziativa europea”. Concludendo “io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica a voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”.

Il dialogo tra Sacchi e Monti Buzzetti ripercorre soprattutto la storia del Sud, quella che il Presidente dell’U.M.I., napoletano, sente più vicina e della quale orgogliosamente rivendica la scelta unitaria contro talune deliranti artefatte narrazionI neoborboniche, quelle che nel linguaggio giornalistico-politico si chiamano fake news arricchite da documenti che spesso si riferiscono a fatti diversi da quelli che si vorrebbero esporre. “Insomma dei falsi e fatti anche male. Del resto - aggiunge Sacchi - affermare, come si è fatto, che dopo il 1860 nel sud Italia vi furono ad opera dei “piemontesi” un milione di deportati, con una popolazione di nove milioni di persone, è molto più che risibile: è patetico”. Aggiungo che questo tentativo di riscrivere la storia, che ovviamente è sempre possibile e, in taluni casi, necessario, non deve essere strumento di negazione della identità di un popolo la cui ricchezza si fonda sulla varietà delle esperienze politiche, culturali, artistiche che, in un ambiente naturale straordinario, che tutte insieme fanno dell’Italia il “bel paese ove il sì suona”. Anche se poi non suonava dappertutto perché nelle aree del mezzogiorno che si vorrebbero felici l’uso della lingua italiana era limitato ad alcune classi sociali e, in questo ambito, alle persone colte che si rapportavano con l’Europa nel linguaggio che Alessandro Manzoni aveva consegnato ai lettori dei suoiPromessi Sposi, riservando alle conversazioni domestiche il dialetto, prezioso retaggio delle poesie e delle storie locali.

Nulla a che fare con i neoborbonici alla ricerca di un riscatto che non ha ragion d’essere perché nessuno al governo del Regno d’Italia volle umiliare le popolazioni già appartenenti al disciolto Regno delle Due Sicilie. I cui sudditi, nelle classi borghesi, apprezzarono l’ordine e l’organizzazione del Regno d’Italia, tutti tranne coloro che erano abituati al brigantaggio, alla malavita organizzata, tollerata ed usata dalla piccola nobiltà che si vantava di essere tale in virtù di spada e toga, mentre non era altro che una cortigiana, spagnolesca espressione servile.

Riprendo la “conversazione” di Sacchi e Monti Buzzetti per non aggiungere troppe mie personali annotazioni al ricco e stimolante testo, anche se le divagazioni sono state sollecitate proprio dalla lettura che, tra storia e politica, intende trarre dal passato elementi di approfondimento in funzione del presente e del futuro. Al quale i monarchici guidati dal Presidente Sacchi guardano con speranza e fiducia confortati dall’esperienza positiva delle monarchie europee e, forse, anche dalla crisi politica e sociale dell’Italia di oggi nella quale i commentatori sono alla ricerca delle distinzioni tra prima, seconda, terza e, forse, quarta repubblica puntualmente scandite da eventi non commendevoli, il più delle volte di carattere giudiziario o di crisi finanziarie, economiche e sociali mai previste e comunque sempre inadeguatamente affrontate.

Monti Buzzetti provoca il suo interlocutore. “Riassumendo, dunque: i Savoia meglio dei Borboni. Ma meglio dei Savoia – questo il ragionamento di tanti – c’è la Repubblica, ultima in ordine di tempo”. E aggiunge. “l’obiezione tipica dell’uomo della strada ad aspirazioni come la tua è “che facciamo, torniamo indietro?” Naturalmente Sacchi si attendeva l’osservazione. E, mentre prepara gli argomenti per rispondere alla provocazione, comincia con un detto popolare diffuso ovunque in Italia “è una repubblica”, che la saggezza popolare attribuisce a situazioni confuse. Lo diceva anche mia nonna.

Sacchi prosegue richiamando l’art. 139 della Costituzione che esclude la modificabilità della forma repubblicana dello Stato. Lo ritiene un “senso di colpa costituzionale”, un “muro ideologico innalzato nel 1946/48 dai costituenti per blindare un risultato referendario discutibile e tuttora discusso”. Ritiene quella scelta “un’insopportabile compressione della sovranità popolare, tutelata dall’art. 1 della stessa Carta”, laddove si legge che “la sovranità appartiene al popolo”.

Sull’art. 139 l’U.M.I. ha ingaggiato una dura battaglia chiedendo ai partiti la disponibilità ad affrontare il tema della sua soppressione. E siccome molti accettano di parlarne in privato ma non in pubblico Sacchi ha invitato i monarchici, in occasione delle elezioni del 4 marzo, ad astenersi dal voto nei confronti di quei partiti. Decisione “politica”, non sfuggendo al Presidente dell’U.M.I. che la Costituzione considera il voto un “dovere” anche se la sua omissione non è, come un tempo, sanzionata.

Torniamo al “perché sì” della Monarchia che Sacchi affronta sulla base di uno stimolo di Monti Buzzetti il quale assume che l’opzione monarchica potrebbe essere percepita oggi “come qualcosa di elitario, una conventio ad excludendum”. È facile per Sacchi ribattere che i capi di stato in repubblica sono sempre espressione dei partiti, spesso impegnati nelle competizioni elettorali in prima persona, quindi naturalmente “di parte”, una posizione suggerita da una legittima ambizione che non c’è per i regnanti e per gli eredi al trono che li rende indipendenti, capaci di interpretare gli interessi del popolo con il distacco dato dalla carica che non deve soddisfare le aspettative di amici e sodali né realizzare le ambizioni politiche e ideologiche che naturalmente sono destinate a dividere. Non lo dice Sacchi ma io, da giurista, sono stato molto contrariato dalla gestione di Giorgio Napolitano, un personaggio che si è rivelato fazioso e lontano da quel ruolo di custode della Costituzione, tra l’altro facendosi garante di una proposta di riforma della Carta fondamentale ad iniziativa di un Parlamento eletto sulla base di una legge dichiarata incostituzionale. Di più, ha partecipato attivamente alla campagna referendaria sostenendo che se avesse prevalso il “NO” sarebbe stata rinnegata la sua eredità politica. Gli italiani hanno capito ed hanno votato in massa NO. Un uomo “di parte”, dunque, posto al vertice dello Stato.

“L’uomo solo sul trono”, scrive Sacchi, “non è precisamente “l’uomo solo al comando””. Ed è facile per lui riferirsi alle “grandi Monarchie democratiche, costituzionali e parlamentari europee”, esempi di libertà e di buon governo. Come le troviamo ai primi posti dei paesi più virtuosi nella graduatoria sulla percezione della corruzione curata da Transparecy International. Mentre l’Italia affianca Cuba ed il Botswana, laddove il rispetto delle regole giuridiche ed etiche lascia molto a desiderare.

Seguono passi di storia patria che hanno fatto scrivere a Domenico Fisichella, scienziato della politica tra i più studiati e seguiti, quell’“Elogio della Monarchia” che costituisce un riferimento certo, avallato da una riflessione non politica ma scientifica, o di scienza della politica, una sorta di decalogo della filosofia monarchica. Che è anche alla base della attuale riflessione sulla identità nazionale messa in forse dalla trascuratezza della Italia repubblicana per i valori unitari e per la sovranità dello Stato.

Sovranità e identità nel contesto del mondo globalizzato sono valori imprescindibili che consentono ad una Nazione di confrontarsi con gli altri partners, in particolare in Europa per non dimenticare neppure il valore della nostra storia, della cultura e dell’arte, realtà preziose per le quali l’Italia è famosa ovunque, al di qua e al di là degli oceani. Una storia che la repubblica non ha saputo rivendicare se in visita al Parlamento Europeo Sacchi ha potuto constatare che  “tutto è scritto in francese, tedesco, fiammingo: nulla ricorda l’Italia”, nonostante il nostro Paese sia uno dei soci fondatori della Comunità, poi dell’Unione. Ce n’è abbastanza per capire dove Alessandro Sacchi e l’Unione Monarchica intendono andare, per rivendicare l’identità nazionale, la storia patria, valori del passato che si proiettano inevitabilmente nel futuro. Nella pubblicità televisiva del libro di Montanelli che abbiamo ricordato nelle pagine precedenti è riproposto un brano di una intervista al grande giornalista per il quale un popolo che non ha “ieri” non ha neppure un “domani”. E il domani per i monarchici dell’U.M.I. è “la Monarchia, costituzionale e parlamentare, con Amedeo di Savoia Re d’Italia, e dopo di lui Aimone, e dopo di lui suo figlio Umberto”.

Martedì 24 aprile 2018, in Torino, in via Donati 29, con la deposizione di una corona d’alloro dinanzi alla lapide commemorativa, si è ricordata la figura leggendaria del grande patriota monarchico.

Presidenti all’incontro: il Gen. Roberto Lopez, presidente provinciale U.M.I. Torino, il Prof. Francesco Forte, presidente Comitato Edgardo Sogno, l’Ing. Piero Stroppiana, ultimo reduce della brigata Franchi, le figlie di Sogno, Laura e Sofia, l’Avv. Edoardo Pezzoni Mauri, presidente del collegio dei revisori dell’U.M.I., e Stefano Terenghi, in rappresentanza del F.M.G.

L’Avv. Edoardo Pezzoni Mauri ha dato lettura del messaggio inviato da S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia, Capo della Real Casa.

 I partecipanti all'evento

Messaggio pervenuto da S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia, Capo della Real Casa

E’ quanto calcola la consulting Brand Finance per l’anno 2017, nel corso del quale il contributo all’economia nazionale sarà di quasi 2 miliardi di euro.

di Marco Perisse 

https://www.gqitalia.it/gq-inc/economia/2017/11/21/perche-la-monarchia-britannica-vale-miliardi-di-euro/

 

Quanto vale la monarchia britannica? Per Brand Finance, studio di consulenza manageriale britannico, si tratta di 67,5 miliardi di sterline nel 2017, ovvero 76 miliardi di euro. Brand Finance ha calcolato il valore della monarchia del Regno Unito considerandola al pari di un brand, dunque nel suo complesso in quanto istituzione e ciò che ne deriva in relazione all’economia nazionale in termini di patrimonio tangibile (pari a 25,5 miliardi di sterline; 28,7 mld euro) e intangibile, che genera comunque benefici per l’economia pari a 42 miliardi di sterline, cioè 47,3 mld euro. L’istituzione monarchica comporta entrate ma anche uscite che – come si vedrà sotto – sono minime rispetto ai benefici. Non sono presi in considerazione i beni privati posseduti dai reali individualmente e/o dalla Casa Reale attuale, ovvero dalle persone fisiche che la compongono oggi. Il valore è cresciuto costantemente negli ultimi anni, fatta eccezione per il 2012.

Quest’anno il contributo della monarchia all’economia nazionale è stimato da Brand Finance in 1,766 miliardi di sterline, quasi 2 mld di euro, derivanti sia dal comparto immobiliare del Crown Estate – che rappresenta una fetta di 13,1 mld di sterline del complesso dei beni tangibili – sia per il patrimonio del Royal Collection Trust quanto da altre industrie in capo alla Corona come il Royal Warrant e la Coat of Arms. Di cosa si tratta? Il Royal Warrant è un marchio di qualità. Viene conferito a persone o compagnie che abbiano regolarmente, e almeno per cinque anni consecutivi, fornito, con prodotti o servizi, la Casa Reale e possono esser rilasciati solo dalla regina, dal principe di Edimburgo e dal principe di Galles. È suscettibile di revisione, una commissione può confermarlo o revocarlo dopo 5 anni sempre con l’obiettivo di garantire la massima qualità. È considerato un poderoso strumento di marketing. Oggi sono circa 800 i produttori di beni e servizi che lo sfoggiano per un giro d’affari stimato in 193,3 milioni di sterline. Il Coats of Arms è l’ufficio araldico. Anticamente erano i sovrani a nominare gli araldi, gli ufficiali che sovrintendevano ai tornei cavallereschi. Nel tempo si è trasformato in registro ufficiale degli stemmi o armi. Il giro d’affari è appena un decimo del Royal Warrant, ma secondo analisti di mercato non sono state dispiegate in pieno le potenzialità di quello che può diventare anch’esso un suggestivo strumento di marketing.

Ci sono poi gli effetti indiretti della Monarchia sul Pil. Se l’utile del Crown Estate è calcolato in 329 milioni di sterline, per altri comparti come il commercio, i media, il turismo si parla di stime. Si pensi solo ai milioni di turisti che visitano ogni anno le residenze reali, molti dei quali condotti nel Regno Unito dal fascino e dall’aura di un’antica monarchia. Nel 2016, sottolinea il rapporto di Brand Finance, ben 2,7 milioni di turisti hanno visitato Buckingham Palace, il castello di Windsor, il palazzo di Holyroodhouse e altri siti reali. Il flusso di cassa è stimato in 550 milioni, il maggiore di tutti fra quelli generati dalla Corona. Nel comparto del commercio la stima è di 150 milioni di sterline per l’anno in corso, compresi i patronati che portano valore aggiunto grazie al brand anche a servizi come la Royal Mail. Sono 50 i milioni mossi nell’industria dei media dal brand monarchico, in un ventaglio che va da show come The Crown and Victoria alla febbre di interesse per la vita privata/personale dei reali per arrivare alla prima stagione della serie The Crown in cui sono stati investiti 100 milioni di sterline e che può fare da volano acceleratore all’immagine dell’istituzione. E i costi? A quanto pare i grossi benefici all’economia costano appena 4,5 sterline/anno a ciascun contribuente. I costi totali si attestano sui 292 milioni di sterline (330 mln di euro) che includono le provvigioni appunto del Sovereign Grant, annualità pagata dal Tesoro al duca di Edimburgo e gli utili dei ducati di Lancaster e Cornovagliaceduti dallo Stato alla regina e al principe di Galles. I costi includono anche le spese per la sicurezza e, in gran parte, stipendi del personale, manutenzione ordinaria e straordinaria delle residenze, viaggi diplomatici come del resto avviene per qualsiasi altro Stato riguardo le proprie alte rappresentanze. I costi sono destinati però ad aumentare l’anno prossimo per la ristrutturazione di Buckingham Palace e l’aumento decennale del Sovereign Grant. Le sovvenzioni statali dirette – non quindi i costi per la rappresentanza del Capo dello Stato – passeranno dai 42,8 milioni di sterline del 2016-17 a 76,1 nell’esercizio 2017-18. In quello successivo costeranno 82,2 milioni ai contribuenti.