Parola di Re
L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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Al Meeting di Rimini evidente dissonanza tra il Presidente della Repubblica e l’attuale maggioranza politica
di Salvatore Sfrecola
Probabilmente un Re d’Italia non avrebbe parlato al “Meeting per l’amicizia fra i popoli”, promosso da “Comunione e Liberazione”, comunque non si sarebbe occupato di temi politici. Un sovrano rappresenta l’intera Nazione, non può neppure “sembrare” di parte. Anche il Presidente della Repubblica “rappresenta l’unità nazionale” ai sensi dell’art. 87, comma 1, della Costituzione, ma è pur sempre l’uomo di una parte, della parte che lo ha eletto in Parlamento. Del resto, il Capo dello Stato è tratto dalla classe politica, in essa ha militato per anni in posizione di responsabilità, parlamentare o governativa, è espressione di una ideologia che ha promosso e difeso lungo tutta la sua carriera. Non gli si può chiedere di abiurarla. Sarà sempre l’uomo della parte dalla quale proviene. Emergerà dai discorsi, dai messaggi che invia, o non invia, a manifestazioni culturali e rievocatrici di eventi della storia nazionale. Emergerà nei telegrammi di saluti e di auguri, perfino nel conferimento delle onorificenze.
Infatti, nel commentare il discorso che ha tenuto a Rimini la maggior parte dei giornali ritiene che Sergio Mattarella abbia fatto un discorso di innegabile tono politico, nel quale si intravede una sua presa di distanza dalla filosofia dell’accoglienza del Governo di Giorgia Meloni e dalle idee contenute nel libro del Generale Roberto Vannacci che tanto fa discutere in questi giorni. Qualche titolo: “Frecciate al generale e alla Meloni”, La Verità; “Mattarella striglia le destre”, Il Domani; “Migranti e odio Mattarella scuote la politica”, Corriere della Sera; “Mattarella tira le orecchie al governo (e a Vannacci)”, Il Fatto Quotidiano; “No alla politica dell’odio”, La Repubblica; “Mattarella fa lo spot ai migranti”, Libero; “L’affondo di Mattarella ‘Basta odio e razzismo’”, La Stampa; “La nostra Costituzione nasce per espellere l’odio”, Il Sole 24 Ore. “Odio”, che ricorre spesso con evidente riferimento ad una frase del Generale estrapolata e fuori contesto. Ma tant’è, il Presidente è stato colpito “dai sostegni a Vannacci”, scrive Marzio Breda, quirinalista illustre del Corriere, sicché “è stato un intervento pedagogico, il suo, riassunto da una domanda inespressa: è possibile basare una società sul “diritto all’odio”, invocato sulla scia delle polemiche?”. Naturalmente il Generale non è abituato a dialogare con la stampa e quando spiega il senso della frase sull’odio forse non riesce del tutto ad esprimere il suo pensiero. “Devo precisare una cosa, altrimenti corro il rischio di essere frainteso… Non odio i diversi, anzi sono diverso a mia volta. Rispetto e tollero le diversità altrui a patto che gli altri non inquinino la mia”, dice a Tommaso Labate ancora sul Corriere. Forse non sarebbe difficile un’interpretazione diversa delle sue parole che si continua a decontestualizzare. Scrive Maurizio Belpietro che, insieme a Francesco Borgonovo, lo ha intervistato per la TV Verità premesso che “il modo migliore per mettere a tacere qualcuno è dargli del matto”, come accadeva in Unione Sovietica, “vi debbo confessare che l’ho trovato tutt’altro che folle. Dalle risposte che ha dato alle nostre domande, ne ho ricavato che l’uomo ha idee precise su una serie di argomenti. Non pensa di essere un nuovo Giulio Cesare, come hanno scritto, né mi pare convinto di avere la soluzione a tutti i problemi del mondo. A diversi quesiti ha risposto riconoscendo di non avere la preparazione necessaria, ma alla fine ciò che mi ha colpito è lo straordinario buon senso”. Ma andiamo per gradi.
Leggiamo insieme le parole del Presidente che hanno indotto a quei commenti, cominciando dal tema della o “delle” identità. “Le identità plurali delle nostre comunità sono il frutto del convergere delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le vivificano. Nel succedersi delle generazioni e delle svolte della storia.
È la somma dei tanti “tu”, uniti a ciascun “io”, interpellati dal valore della fraternità, o, quanto meno, del rispetto e della reciproca considerazione.
È il valore della nostra Patria, del nostro straordinario popolo – tanto apprezzato e amato nel mondo – frutto, nel succedersi della storia, dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni; di apporto di diversi idiomi per la nostra splendida lingua; e nella direzione del bene comune.
Amicizia, per definizione, è contrapposizione alla violenza. Parte dalla conoscenza e dal dialogo. Anche in questo, l’amicizia assume valore di indicazione politica.
Non mancano, mai, i pretesti per alimentare i contrasti.
Siano la invocazione di contrapposizioni ideologiche; la invocazione di caratteri etnici; di ingannevoli, lotte di classe; o la pretesa di resuscitare anacronistici nazionalismi”.
Il Presidente parla di “identità plurali”. A me sembra una negazione del concetto di identità che certamente si alimenta del concorso “delle identità di ciascuno di coloro che le abitano, le rinnovano, le vivificano. Nel succedersi delle generazioni e delle svolte della storia”. Ma le varie identità convergono in quella che riconosciamo come “identità nazionale” che è espressione della pluralità delle esperienze culturali delle realtà territoriali del nostro Paese le quali nel tempo si sono formate sulla base delle tradizioni, delle esperienze politiche, dell’economia che tiene conto anche del contesto ambientale. Il mare, la montagna l’articolazione del territorio hanno condizionato nel tempo lo sviluppo delle comunità locali e le loro identità che, unificata l’Italia, concorrono nella identità del Paese.
Non è questo che sembra dire il Presidente, anche se, quando afferma che il “valore della nostra Patria, del nostro straordinario popolo” è il “frutto, nel succedersi della storia, dell’incontro di più etnie, consuetudini, esperienze, religioni; di apporto di diversi idiomi per la nostra splendida lingua”, sembra prendere atto di una realtà assolutamente condivisibile: gli italiani si sono formati nel tempo con il concorso di popolazioni diverse, gli etruschi, i sabini e via via i germani, i longobardi, normanni. Il Presidente Mattarella ha gli occhi chiari, come molti siciliani, alcuni dei quali sono biondi come coloro che venivano dal nord. Nondimeno conosco nell’isola e in Calabria italiani che, sostando per qualche minuto alla fermata dell’autobus, diventano rapidamente abbronzati, per una pelle più sensibile al sole, per effetto di una presenza araba durata molti decenni in quei territori.
Biondi o bruni, come in altre regioni, lungo i secoli sono divenuti italiani, coautori di quella identità che da Cielo d’Alcamo ad Alessandro Manzoni, passando per Dante e Petrarca, per non citare che i più noti, è divenuta l’identità italiana alla quale ha concorso anche la Chiesa di Roma, la ragione per la quale un filosofo laico e liberale, ha potuto affermare che “non possiamo non dirci cristiani”.
Ebbene, è questa identità, espressione di una cultura liberale e cristiana, che trovano quanti vengono nel nostro Paese perché fuggono da guerre o dalla miseria e che noi accogliamo nel segno di una tradizionale disponibilità che risale alla Roma repubblicana e imperiale, quando chiunque bussasse alla porta era ben accolto purché rispettasse le leggi di Roma e ne condividesse la missione storica, quella che oggi chiamiamo “identità”. Che non è una variabile indipendente come vorrebbe chi intende farci perdere il senso della storia, la perdita del senso del contesto. “Perché – ha detto Lucio Caracciolo – se tu sei svedese non puoi essere giapponese nel modo di pensare e viceversa. Il tentativo di fare una specie di fritto misto utilizzabile come chiave interpretativa è legittimo ma non appartiene secondo me al modo migliore per affrontare quello che noi viviamo. E uno dei motivi del nostro spaesamento è proprio che siamo stati abituati a pensare che esistesse un modello universale e che noi addirittura ne fossimo la matrice che l’Europa fosse il mondo e che il mondo fosse un’Europa”.
Quindi una intelligente accoglienza, finalizzata anche alla integrazione, della quale molti si riempiono la bocca, non vuol dire una immissione indiscriminata di immigrati. Ai quali evidentemente non si chiede di abiurare alla loro cultura ma, in primo luogo, di rispettare la nostra e di non praticare consuetudini incompatibili con i valori che abbiamo impressi in Costituzione e che tutti conosciamo. Per i quali non si può, ad esempio, obbligare con la forza una ragazza a sposare chi ha deciso la famiglia. E se ti viene conferita la cittadinanza italiana, perché sei un bambino coraggioso che ha salvato i compagni chiamando i Carabinieri mentre sei in uno scuolabus sequestrato da un terrorista, non puoi farti fotografare con sulle spalle la bandiera egiziana per esprimere il legittimo orgoglio dell’appartenenza ad un popolo con una storia straordinaria. Sei un residente gradito, non un cittadino.
Elementari regole, ovunque rispettate, nei paesi che hanno un’identità. Il Primo Ministro del Regno Unito è proveniente dall’India, non professa la religione del Re, che ne è anche Lord Protettore, ma è inglese a tutti gli effetti. È un professionista, immerso nella realtà del suo nuovo paese.
Nell’affrontare il tema dell’immigrazione il Presidente Mattarella richiama il valore dell’amicizia come “valore di indicazione politica. Non mancano, mai, i pretesti per alimentare i contrasti”. Qui il Presidente sembra aver fatto una scelta se ritiene di censurare “la invocazione di contrapposizioni ideologiche; la invocazione di caratteri etnici; di ingannevoli, lotte di classe; o la pretesa di resuscitare anacronistici nazionalismi”. Di tutto e di più. Per dire della sua distanza – questa è l’interpretazione prevalente – dalle tesi che ha espresso nel suo libro, “Il mondo al contrario”, il Generale Vannacci. Eppure, le contrapposizioni ideologiche, il confronto delle idee sono il sale della democrazia, mentre l’“invocazione” di caratteri etnici è una interpretazione di alcune espressioni usate nel libro che molto probabilmente l’Autore non condividerebbe. Come il richiamo al “sentimento dell’odio”, di cui già si è detto. Naturalmente con riferimento alla Costituzione i cui valori il Generale avrebbe negato. Quali, come, quando? Non è mio compito difendere il Generale o nessun altro, né i politici che, scrive Marzio Breda, avrebbero dimostrato di “voler ignorare la Carta sulla quale hanno giurato”.
Prosegue il Presidente:
“Vorrei che ci interrogassimo.
Su cosa si fonda la società umana; la realtà nella quale ciascuno di noi è inserito; la realtà che si è organizzata, nei secoli, in società politica dando vita alle regole – e alle istituzioni – che caratterizzano l’esperienza dei nostri giorni?
È, forse, il carattere dello scontro? È inseguire soltanto il proprio accesso ai beni essenziali e di consumo? È l’ostilità verso o il proprio vicino, o il proprio lontano? È la contrapposizione tra diversi? O è, addirittura, sul sentimento dell’odio che si basa la convivenza tra le persone?
Se avessimo risposto affermativamente, anche, soltanto, a una di queste domande, con ogni probabilità, il destino dell’umanità si sarebbe condannato da solo; e da tempo. Invece, il crescere dell’amicizia fra le persone è quel che ha caratterizzato il progresso dell’umanità. L’amicizia, come vocazione – incomprimibile – dell’uomo”.
L’amicizia, un valore grandissimo, rimarcato da uomini di pensiero in tutte le età. Sarebbe bene che dominasse le relazioni interne ed internazionali. Purtroppo, non è così, come dimostra l’invasione dell’Ucraina da parte della Russia che, infatti, ammette il Presidente “ne dà drammatica testimonianza.
Quello del Presidente è una sorta di trattato sull’amicizia, da far invidia a Cicerone, se fosse vivo. E continua “Ecco, come nasce la nostra Costituzione: con l’amicizia come risorsa a cui attingere per superare – insieme – le barriere e gli ostacoli; per esprimere la nostra stessa umanità”. Un’affermazione di buona volontà che forse Palmiro Togliatti non aveva del tutto percepito quando, in prossimità delle elezioni legislative del 1948, disse che intendeva “comprare un paio di scarponi chiodati per dare un calcio nel sedere a De Gasperi”. “L’aspirazione non può essere quella di immaginare che l’amicizia unisca soltanto coloro che si riconoscono come simili.
Al contrario. Se così fosse, saremmo sulla strada della spinta alla omologazione, all’appiattimento. L’opposto del rispetto delle diversità; delle specificità proprie a ciascuna persona”. Tutto vero, ma la diversità necessariamente si fonda su un idem sentire quanto ai valori fondamentali, altrimenti è divisiva.
In realtà la cultura cui appartiene il Presidente, quella che si identifica in quella parte del mondo cattolico, minoritaria ma rumorosa dal dopoguerra impersonata dalla sinistra cattolica che non ha accettato del tutto lo stato unitario liberale, che ancora considera l’annessione di Roma al Regno d’Italia soprattutto la fine del potere temporale della Chiesa, che non ha letto Cavour, e passi, ma neppure il Cardinale Giovan Battista Montini, futuro Papa Paolo VI, autore di uno straordinario intervento in Campidoglio per il centenario dell’unità d’Italia. Qualcuno gli diede del massone!
Comunicato stampa di sabato 5 agosto 2023
I monarchici contro il cambio di nome a Via Garibaldi a Reggio Calabria
L’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) apprende con profonda indignazione la proposta di cancellare il nome di Giuseppe Garibaldi dalla via principale di Reggio Calabria. La proposta offende la storia e il sentimento nazionale oltre a costituire un insulto nei confronti della popolazione reggina che nel 1860 si schierò con entusiasmo a fianco del Generale, strenuo combattente per quelle libertà che in Calabria come nell’Italia meridionale erano negate da un regime illiberale. I monarchici italiani ricordano la figura del grande italiano, repubblicano ma amico del re Vittorio Emanuele II, in nome del quale ha liberato tanta parte d’Italia così favorendo l’unità nazionale.
Roma,05.08.2023
Il Presidente Nazionale
Avv. Alessandro Sacchi
Corato (BA): giovedì 20 luglio 2023
Grande successo di pubblico per il convegno organizzato dal Segretario Nazionale Oronzo Cassa il 20 luglio, a Corato.
Il tema “Dio, Patria e Famiglia” è stato argomentato da relatori appassionati e competenti. Il Rev. Luigi Tarantini, la Dott.ssa Giuseppina Ferri, Commissario Provinciale di Bari, ed il Presidente Alessandro Sacchi.
Presto nuove iniziative in Puglia.
da sx: Rev.do Don Luigi Tarantini, parroco della Chiesa di San Domenico di Corato (BA), l'Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale U.M.I., la Dott.ssa Giuseppina Ferri, Comm. Prov. di Bari dell'U.M.I., il Dott. Franco Tempesta, giornalista, e Oronzo Cassa, Segretario Nazionale dell'U.M.I.
L'Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale dell'U.M.I., durante il suo intervento
Il pubblico presente all'incontro
Umberto II, il Savoia che sognò un regno sostenuto dal popolo e veramente libero
Pubblicate per la prima volta le conversazioni tra il Re e Giusto Matzeu, l'ufficiale che lo informava sulla Resistenza. Il ritratto inedito di un leader attento al Paese
( tratto da: Umberto II, il Savoia che sognò un regno sostenuto dal popolo e veramente libero - ilGiornale.it)
Fra giugno 1945 e marzo 1946 Umberto di Savoia ebbe colloqui con un giovane ufficiale antifascista di nobile famiglia sarda impegnato nella guerra di liberazione, Giusto Matzeu, che gli riportava notizie dal fronte e dal Nord. Comandante della zona Basso Lario, questi non era solo un combattente, ma anche un uomo di formazione umanistica che nel dopoguerra avrebbe pubblicato lavori di poesia e critica letteraria e sarebbe stato professore a Milano.
Fra i due si stabilì un rapporto di empatia che finì per dare ai loro incontri un carattere più confidenziale rispetto alle interviste rilasciate da Umberto, durante la Luogotenenza e il Regno, a giornalisti e scrittori come Nino Bolla, Giovanni Mosca, Carlo Maria Franzero, Silvio Maurano, Luigi Cavicchioli, Giovanni Artieri... I colloqui non erano destinati alla pubblicazione, ma alla vigilia del referendum istituzionale Matzeu pensò di rifonderli in volume. Il libro, completato nel 1948, quando Umberto era ormai in esilio non fu tuttavia pubblicato e solo ora vede la luce col titolo Umberto II. Dalla Luogotenenza al regno. Gli inediti colloqui con Giusto Matzeu (Edizioni San Faustino, Brescia, pagg. 344, euro 19) a cura di Marco Gussoni che ne ha reperito sul mercato antiquario il dattiloscritto originale.
Umberto riceveva Matzeu per dovere d'ufficio, per ottenere informazioni sulle operazioni belliche e raccogliere giudizi su persone impegnate nella guerra di liberazione, ma non si limitava a questo e si lasciava andare a considerazioni storico-politiche. Il primo colloquio avvenne il 12 giugno 1945, poche ore prima che Ivanoe Bonomi rassegnasse le dimissioni e aprisse la crisi di governo che si sarebbe risolta con la nomina di Parri.
Umberto chiese a Matzeu un parere e questi fu categorico: «Parri non è adatto per essere capo di un governo». Peraltro egli non cambiò idea e lo nominò perché, secondo lui, questi, voluto dal Nord e dai partiti, era «l'uomo della situazione» e sarebbe stato bene «metterlo alla prova, vederlo all'opera» anche per verificare quanto se ne diceva, e cioè che fosse «uomo modesto, laborioso e tenace». L'episodio mostra come Umberto facesse valere la sua volontà nelle decisioni politiche importanti. Ne rivela anche l'antifascismo: al suo interlocutore disse che i partigiani erano «l'espressione di tutto il popolo italiano, il simbolo della rivolta ideale» e aggiunse che sarebbero dovuti «rimanere sempre uniti, al di sopra dei partiti e lontani dalle competizioni politiche» perché solo così avrebbero potuto avere «un ruolo definitivo nella vita del nostro Paese».
Educato al «mestiere di Re», Umberto aveva una visione della monarchia come istituzione regolatrice della dialettica politica: «La monarchia è al di fuori e al di sopra dei partiti, la sua funzione è al di fuori delle mischie della piazza, in un equilibrio che consente la tutela di tutte le correnti politiche e garantisce l'esercizio di tutte e pubbliche libertà. Nella lotta democratica, le minoranze possono diventar maggioranze, e queste, o per imperizia o per incapacità, e spesso anche per elefantiasi, o mutamenti politici, possono sfaldarsi: la monarchia ha una funzione sociale e giuridica attraverso la quale garantisce tutti i processi di evoluzione democratica e la possibilità, con i mezzi legali, di arrivare al potere». Si trattava di una visione moderna, democratica e liberale dell'istituto monarchico e non è un caso che Umberto precisasse che «democrazia e libertà sono due termini e coincidono, due ideali che si fondono in uno solo».
Concetti, questi, che egli aveva già sviluppato in una celebre intervista rilasciata nell'ottobre 1944 al giornalista americano Herbert Lionel Matthews: una intervista che aveva spinto l'interlocutore a concludere che meta dei monarchici italiani sarebbe stata quella di «una monarchia liberale e democratica», insomma una «monarchia di sinistra». In realtà Umberto aveva riaffermato l'intenzione di volersi considerare al di sopra dei partiti politici aggiungendo che il sentimento monarchico non avrebbe dovuto «materializzarsi in un partito politico» e precisando, ancora, che la monarchia non avrebbe ostacolato i programmi «socialmente molto avanzati» che caratterizzavano tutti i partiti politici.
Ciò spiega la sua posizione nei confronti del referendum istituzionale. Nel colloqui con Matzeu, per esempio, egli rifiutava, contro il parere dell'interlocutore e di altri consiglieri, di coinvolgere ufficialmente la Corona nella battaglia politica. Per lui, infatti, il referendum era solo «una consultazione popolare» attraverso la quale il popolo avrebbe potuto «liberamente esprimere la sua volontà» e aggiungeva che Casa Savoia aveva «accettato il referendum, ossia il cosciente responso del popolo» anche tenendo presente il fatto che essa era «giunta al Trono d'Italia attraverso quelle vie con i plebisciti popolari». Le preoccupazioni del suo interlocutore sulle garanzie di una consultazione serena e sull'equanimità del controllo degli Alleati non lo coinvolgevano più di tanto avendo egli aveva fiducia nelle popolazioni, nelle istituzioni, nella magistratura.
La sua concezione di una monarchia che considerava «tutti gli italiani come cittadini uguali, anzi come propri figli, compresi coloro» che non l'avrebbero votata; questa concezione implicava, a suo parere, la necessità di ampio consenso. Una battuta di Umberto è significativa: «Casa Savoia non può, e non vuole regnare senza il consenso del popolo». È una battuta che comporta altre conseguenze come, per esempio, quelle contenute nelle risposte alle domande poste da Matzeu nell'ultimo incontro: se, in caso di vittoria monarchica con un margine del dieci per cento il referendum sarebbe stato ripetuto e, ancora, se, in caso di vittoria repubblicana frutto di possibili brogli o inganni elettorali, egli avrebbe lasciato l'Italia per evitare lotte fratricide e spargimenti di sangue. Le convinzioni di Umberto spiegano il suo comportamento e la scelta di partire per l'esilio anche di fronte alle resistenze dei consiglieri più stretti e al loro invito a resistere e reagire alla patente violazione del diritto, un vero e proprio «colpetto di Stato» (come lo avrebbe definito Luigi Barzini), perpetrata dal governo con la dichiarazione della vittoria della repubblica senza che questa venisse proclamata dalla suprema Corte. Nel volume si trovano precisazioni importanti su fatti e momenti della storia più recente, dalla lotta partigiana alla nascita del Regno del Sud ai rapporti con gli alleati, ma soprattutto vi si trova un ritratto inedito di Umberto che appare non già un personaggio politicamente sbiadito quanto piuttosto una persona di spessore culturale e politico, realmente preoccupato del bene del Paese.