Alessandro Sacchi, avvocato cassazionista e presidente dell'Umi, terrà una manifestazione per ricordare Umberto II al centro congressi Cavour

Antonio Parisi

( tratto da: Roma, quarant'anni fa moriva l'ultimo Re d'Italia. Il ricordo in un evento - Affaritaliani.it )

Quaranta anni fa, il 18 marzo del 1983, si spense in Svizzera a Ginevra, Umberto II di Savoia, l’ultimo re d’Italia. Aveva regnato per poco più di un mese, dal 9 maggio 1946 al 18 giugno del 1946.

In realtà essendo stato nominato luogotenente del Regno d’Italia il 5 Giugno 1944, Umberto, svolse a tutti gli effetti il ruolo di capo dello Stato per due anni, svolgendo egregiamente il delicato compito di ridare dignità all’Italia, un ruolo a fianco degli alleati, sia nella guerra contro l’occupante tedesco e sia nella ricostruzione amministrativa del Paese. Dopo il referendum del 2 giugno 46, con un atto violento del governo presieduto da Alcide De Gasperi, il consiglio dei ministri, del 10 giugno, senza attendere la decisione della Corte di Cassazione che si riunì il 18 per proclamare il vincitore, esautorò il re dai suoi poteri e proclamò Capo Provvisorio dello Stato lo stesso De Gasperi. Questo atto a dire di alcuni giuristi e storici, fu un autentico colpo di stato, ragione per cui il 18 di giugno la Corte di Cassazione non proclamò la Repubblica e almeno sulla carta Umberto restò Re e forse “capo dello stato” sino alla morte, anche perché il re non abdicò mai e per evitare spargimenti di sangue e una nuova guerra civile partì per un volontario esilio per il Portogallo.

La lettera a Pertini

Negli anni 80 del secolo scorso, prima della morte di Umberto, la Repubblica, pur riconosciuta da tutti gli Stati del Mondo, forse sentiva il neo, relativo alla sua nascita, e cercò di farsi riconoscere dal re, con un trucchetto, studiato al palazzo del Quirinale. Si chiese ad Umberto il suo consenso, con una dichiarazione, a trasferire al Pantheon di Roma, i resti mortali, in quel momento all’estero di Vittorio Emanuele III e della regina Elena, ma si pretendeva che il, documento fosse indirizzato al Presidente della Repubblica Italiana, sia nel testo che sulla busta.

Così non fu. Sulla busta fu scritto: “All’onorevole Sandro Pertini, Palazzo del Quirinale, Roma”. Pertini, vedendosi non chiamato “Presidente”, si offese, accartocciò la lettera buttandola ai piedi dell’Onorevole Giuseppe Costamagna che la aveva consegnata per conto di re Umberto. Costamagna recuperò la dichiarazione e la riconsegnò al mittente. Non era presente il segretario generale del Quirinale, Antonio Maccanico, che tentò disperatamente di recuperare il documento. Naturalmente non ci riuscì.

Allora fu scatenata una ingiusta campagna di stampa contro Umberto, reo, secondo i media italiani, di aver offeso Pertini. La campagna contro Umberto fece il paio con quella tentata da Alcide De Gasperi nel 1947 ed anni successivi, che tentò di “affamare” Umberto, con una spettacolare causa intentata a Londra per recuperare i soldi di una polizza sulla vita del secondo re d’Italia, Umberto I, assassinato a Monza nel 1900. De Gasperi e il governo italiano persero in maniera ignominiosa la causa.

L'esilio di Re Umberto II

Umberto da quel giugno 1946, non rivide più l’Italia. Poté ammirare per l’ultima volta le bianche cime delle montagne del nostro e suo Paese dal finestrino dell’aereo ambulanza che lo portò morente da Londra a Ginevra. Spirò pronunciando la parola “Italia”. I funerali, furono tenuti nell’abazia di Altacomba, nella terra di Savoia, dove mille anni prima, iniziarono le gesta del primo Savoia conosciuto: Umberto dalle bianche mani. I funerali furono grandiosi, parteciparono capi di stato e di governo di tutto il mondo. Migliaia e migliaia di Italiani, giunti con centinaia di pullman. Giornalisti di ogni testata, tra cui Enzo Tortora, che realizzò un grande servizio per Rete 4.

Le celebrazioni per i quarant'anni dalla scomparsa di Umberto

Tra le centinaia di ragazzi e giovani c’era anche un giovanissimo Alessandro Sacchi che era giunto da Napoli per assistere ai funerali del re. Oggi quel giovane è il presidente della più importante organizzazione monarchica italiana, l’UMI – Unione Monarchica Italiana. Avvocato cassazionista Sacchi, con un lavoro certosino sta riproponendo l’idea monarchica tra l’uomo della strada. E per il Quarantennale della scomparsa di Umberto, il presidente dell’ Umi, ha organizzato, sabato 18, una manifestazione a Roma al centro congressi Cavour.

Abbiamo chiesto a Sacchi il perché di questa celebrazione.

“Ritengo giusto - ci ha dichiarato Sacchi - ricordare la figura di Umberto. Non fu un capo di Stato sbiadito, il re di maggio, come lo indicavano un po’ spregiativamente, alcuni uomini della Repubblica. Fu persona accorta e misurata e, come in più occasioni disse Giulio Andreotti, in dissenso con il suo capo, De Gasperi, Umberto avrebbe potuto dare molto all’Italia. Anche il primo ministro britannico Winston Churchill, affermò che Umberto sarebbe stato un ottimo re ed un equilibrato capo dello Stato. In realtà se formalmente fu re solo per circa un mese , esercitò le funzioni di capo dello Stato per due anni per essere divenuto, Umberto, Luogotenente del regno a giugno del 1944. Da Luogotenente, emise un decreto che diede il voto alle donne già nelle amministrative del 1945 e poi al referendum 1946. Dimostrò di amare più il suo popolo che il suo trono, quando di fronte al golpe di De Gasperi del 10 giugno, invece di far arrestare De Gasperi, come alcuni collaboratori gli suggerivano, cosa che forse avrebbe provocato una nuova guerra civile, preferì denunciare con un proclama la violenza del Governo e partire per volontario esilio. Durante tutti gli anni non suscitò mai polemiche contro gli uomini della Repubblica e a tutti diceva: l’Italia innanzi tutto. Grande rispetto per Umberto ebbe persino Palmiro Togliatti, che anche negli anni della Repubblica riferendosi a lui, lo indicava come Sovrano. Umberto partì dall’Italia senza un soldo. Il papa Pio XII gli presto 12 milioni di lire. Soldi regolarmente restituiti, quando Umberto riuscì ad incassare alla fine degli anni quaranta, la polizza sulla vita del re Umberto I, ucciso a Monza il 29 luglio del 1900”

Queste capacità gli erano riconosciute anche dagli americani?

“Negli anni 60, Umberto fece un viaggio negli Stati Uniti. Fu accolto dalla diplomazia americana come un capo dello stato in carica, creando non poco imbarazzo alla diplomazia della Repubblica Italiana. Chi sa, forse, nelle ovattate stanze della segreteria di Stato, si riteneva ancora Umberto II capo dello Stato. D’altra parte la Repubblica non fu mai proclamata. Furono enunciati i risultati del controverso referendum, ma non fu proclamata la Repubblica”.

Lei era ragazzo quando ci furono i funerali ad Altacomba. Cosa ricorda?

“Furono delle esequie grandiose, migliaia e migliaia di Italiana, capi stato e di governo giunti da ogni parte. Ricordo una selva di bandiere e la massa dei giornalisti i quali per una volta commentavano negativamente l’assenza degli uomini della Repubblica e la incapacità di aver fatto morire Umberto in Italia, come era il suo desiderio. Ricordo anche Enzo Tortora a cui lei Parisi, giovane collaboratore di re Umberto, rimproverò di non intervistare i giovani ma di soffermarsi invece sui ricordi degli anziani. Tortora, grande professionista, le disse di attendere a vedere il risultato televisivo per giudicare. Grande Tortora, aveva compreso che andava evidenziato il dolore di quanti amavano Umberto per la sua azione durante l’epoca della monarchia e durante l’esilio”.

Nella diatriba dinastica che vede confrontarsi i due rami dei Savoia-Carignano, lei parteggia, per Aimone di Savoia o per Vittorio Emanuele?

“Non c’è molto da ragionare su questa questione. Noi siamo per Aimone di Savoia, l’unico, capo di casa Savoia”.

( tratto da: I monarchici ricordano Re Umberto II. Sacchi (Umi): «Accettò l'esilio per salvare la patria» - Secolo d'Italia (secoloditalia.it)

Il 18 marzo 1983 si spegneva a Ginevra Umberto II, quarto Capo dello Stato costituzionale dell’Italia monarchica. L’ultimo sovrano d’Italia è passato alla storia come il “Re di maggio” perché fu formalmente tale solo dal 9 maggio al 2 giugno 1946, giorno del referendum istituzionale che sancì, tra non poche polemiche e ancor più sospetti, il passaggio della nostra nazione alla forma di Stato repubblicana.

Umberto II morì il 18 marzo del 1983

In realtà, quella di “Re di  maggio” è, sotto il profilo storico-istituzionale, una definizione alquanto riduttiva avendo rivestito Umberto di Savoia il ruolo di Capo dello Stato dal giugno 1944 alla sua partenza dall’Italia, avvenuta il 13 giugno 1946. In quel periodo, ricordato come regime luogotenenziale, Umberto II adottò molte importanti iniziative: dal decreto legislativo del 1° febbraio del 1945, n° 23, che conferiva il voto alle donne (la civilissima Svizzera lo concederà solo nel 1971) per le elezioni amministrative di quello stesso anno, all’istituzione del 25 aprile quale festa nazionale. Porta la sua firma anche lo Statuto dell’autonomia della regione Sicilia.

Il ricordo del Re di maggio sabato a Roma

Nel quarantennale della sua morte, l’Unione monarchica italiana (Umi) ha curato la pubblicazione di una monografia collettanea “Umberto II, il Re degli Italiani”, edito da Historica nella collana “L’Italia in eredità”, che gli autori presenterannp sabato 18 marzo, alle 10,30, presso il Centro congressi Cavour (via Cavour 50/a) di Roma. «A ricordare la figura dell’ultimo re d’Italia – ha anticipato l’avvocato Alessandro Sacchi, presidente nazionale dell’Umi -, saranno storici, giuristi e testimoni di quel tempo. Sarà utile sottolineare come Umberto preferì la via dell’esilio pur di scongiurare alla patria una nuova guerra civile. Così – ha concluso Sacchi – agiscono solo i re».

L’Unione Monarchica Italiana ricorda Re Umberto II nel quarantennale della morte

Nel quarantennale della morte, l’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) ricorderà Re Umberto II, nel corso di un Convegno di Studi, che si terrà a Roma il 18 marzo, alle 10.30, presso il “Centro Congressi Cavour”, in via Cavour 50/A.

Nell’occasione il Presidente dell’U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, presenterà il volume collettaneo “Umberto II, il Re degli Italiani”, edito da Historica nella Collana “L’Italia in eredità”. Saranno presenti gli autori.

Roma,16.03.2023

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

di Salvatore Sfrecola

I pregiudizi sono difficili da sradicare. Si servono spesso di slogan e di luoghi comuni che fa comodo ripetere pedissequamente da chi è avvolto dalla pigrizia e non intende fare un minimo sforzo per riflettere ed eventualmente correggere una precedente informazione o un giudizio magari recepito da altri.

È una riflessione alla quale mi capita di ricorrere spesso a proposito di vicende storiche e di personaggi che ne sono stati protagonisti.

Così La Vallesusa del 9 marzo scrive che “due importanti anniversari si ricordano in Casa Savoia nel 2023. Il primo è rappresentato dai 150 anni dalla nascita di Elena del Montenegro, regina consorte di quello che sarebbe diventato re Vittorio Emanuele III, mentre il secondo ricorda i 40 anni dalla morte del “Re di Maggio”, Umberto II, ultimo sovrano d’Italia, cacciato dal referendum del 2 giugno 1946, quando gli italiani scelsero di darsi la forma istituzionale di una Repubblica.

Entrambe queste importanti figure, tutte e due morte in esilio, sono ricordate in questo periodo da una mostra appositamente allestita negli spazi della Palazzina di Caccia di Stupinigi, appartenente all’Ordine Mauriziano. L’esposizione s’intitola “Elena, Regina di Carità e di Pace”, rimando esplicito alla figura della madre di Umberto II.

E proprio in riferimento a quest’ultimo va segnalato un curioso carteggio che vide protagonista il monarca in esilio e una allora ragazzina torinese che oggi vive a Coazze: Franca Leporati. La giovanissima Franca, infatti, negli anni Settanta, scrisse un’accorata lettera all’ex re per manifestargli la sua vicinanza e il suo affetto”.

Perché ho scritto di pregiudizi. Perché, quanto ad Elena di Savoia, Regina d’Italia, non “Regina consorte”, espressione forse presa a prestito acriticamente da qualche tabloid britannico, sarebbe stato necessario, per completezza d’informazione, ricordare che il 15 aprile 1937 Papa Pio XI le conferì la Rosa d’oro della Cristianità, la più importante onorificenza per una donna da parte della Chiesa cattolica, mentre, alla sua morte, il Papa Pio XII la definì “Signora della carità benefica”. E la Chiesa la riconosce “serva di Dio”.

La carità cristiana, virtù tra le più importanti, la Regina Elena l’aveva manifestata in altre occasioni, costantemente, a Messina ed a Reggio Calabria, ad esempio, in occasione del devastante terremoto del 1908, tanto che, negli anni scorsi, è stato eretto in sua memoria e riconoscenza un monumento proprio nella città siciliana. Ancora Elena di Savoia seppe esercitare la sua propensione alla carità durante la Prima Guerra Mondiale quando volle trasformare il Palazzo del Quirinale nell’ospedale militare n. 1, dove furono ricoverati feriti e mutilati provenienti dai fronti di guerra. E successivamente, in esilio, continuò, con le poche risorse delle quali disponeva, ad elargire aiuti a chi si rivolgeva a lei.

Non sarebbe stato difficile acquisire elementi sullo spirito caritatevole della Regina, una virtù sempre apprezzata, quanto poco praticata dalle persone di potere.

Quanto al Re “di maggio”, che vuole indicare, con espressione dall’evidente senso dispregiativo, la figura dell’ultimo Sovrano, anche qui una riflessione sine ira ac studio, come si deve richiedere a tutte le persone di buona volontà, avrebbe dovuto consigliare di omettere quell’espressione, un po’ volgare, usata dalla propaganda socialcomunista e, soprattutto, dai repubblichini di Salò, nel corso della campagna elettorale in vista del referendum del 2 giugno 1946, considerato che Umberto di Savoia, nella veste di Luogotenente generale del Regno, aveva di fatto regnato per due anni nei quali era stato pesantemente pressato dai partiti repubblicani che volevano evitare che la sua figura assumesse maggiore popolarità che facevano intravedere le folle che lo acclamavano ovunque nelle sue visite alle città martoriate dalla guerra, cittadini che evidentemente distinguevano la sua figura da quella di coloro che avevano gettato l’Italia nel baratro di una guerra, a fianco della Germania nazista, che non avevamo alcun interesse a fare, noi Paese mediterraneo con interessi sull’altra sponda, a partire dalla Libia, per non dire di Eritrea, Etiopia e Somalia che potevamo rifornire esclusivamente via mare. Infatti, nel mare dominato dalle flotte inglese e francese, perdemmo rapidamente ogni collegamento con quei territori già tra il 1940 ed il 1941.

Ebbene, da Luogotenente e poi da Re Umberto fu ostacolato in tutti i modi. Gli fu perfino impedito dal Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, di varare un’amnistia secondo una consuetudine che, ovunque nel mondo, accompagna l’ascesa al trono di un nuovo Re.

Infine, quanto al Re “cacciato” dal referendum, anche a prendere per buoni, cosa che nessuno ormai crede, i risultati del voto, è certo che quasi la metà degli italiani, tra quanti avevano potuto votare, pur nelle condizioni di intimidazioni e violenze che si sono registrate in alcune regioni del Nord, ha scelto la Monarchia. Comunque troppo poco perché, sono parole di Re Umberto, “la Repubblica si può reggere con il 51 per cento, la Monarchia no”. La Monarchia è la storia di una Nazione. O è assolutamente maggioritaria o non è.

Nel voto il governo, a maggioranza repubblicana, volle nella scheda elettorale simboli che possono aver determinato degli equivoci nei votanti: per la Repubblica (due rami di quercia e di alloro attorno ad una testa turrita di donna), per la Monarchia (una corona sovrapposta allo stemma di Savoia). Come era facile prevedere, l’effige muliebre sormontata dalla torre – scambiata con un ornamento regale – confuse gli strati meno accorti della popolazione, che videro nel simbolo l’immagine della regina e credettero di votare il Re segnando una croce a favore della Repubblica (la Consulta araldica aveva invano segnalato la necessità di “una figurazione di immediata comprensione per le masse popolari, specie nelle campagne, dove l’analfabetismo è prevalente”), come ricorda Jetti.

Ancora, sommando il numero dei voti per la Repubblica, quale risulta dall’ultimo verbale della Corte di Cassazione, con la cifra dei voti per la Monarchia e con quella dei voti nulli, si raggiunge la somma di circa 25 milioni (24.935 343), una cifra assolutamente impossibile secondo i dati ufficiali dell’Istituto di Statistica, che circa 25 milioni avessero votato. I dati relativi all’entità della popolazione italiana, alla percentuale dei maggiori di 21 anni, cioè gli elettori, considerati gli elettori defunti, assenti, inabilitati, impossibili dati i numerosissimi certificati elettorali non consegnati, portano concordemente a stabilire che fra il numero dei voti degli aventi diritto e il numero dei votanti, sulla base delle cifre ufficiali, vi è uno scarto in più i votanti di circa due milioni.

Quanto al criterio con cui fu stabilita la maggioranza si considerarono elettori votanti soltanto quelli in cui voto fu riconosciuto valido, contro il parere del Procuratore Generale della Corte di Cassazione: “non solo la lettera della legge impone di interpretare il termine elettori “votanti” nel senso di elettori che hanno comunque compiuto le operazioni di votazione, non solo i principi del diritto e la nostra tradizione, ma anche soprattutto lo spirito della legge, se la legge mira come è, a costituire precisamente un sistema di garanzie per la formazione della volontà collettiva”.

In proposito alcuni giuristi dell’Ateneo di Padova proposero un ricorso osservando che il decreto luogotenenziale del 16 marzo, con il quale era stato indetto il referendum, si riferiva a “maggioranza degli elettori votanti” non dei voti validi e la cifra degli elettori votanti mancava tra quelle rese note. Ci si era limitati a indicare i voti per la monarchia e i voti per la Repubblica; occorreva una maggioranza qualificata da calcolare tenendo conto anche delle schede bianche e nulle, occorreva cioè, come si dice in gergo elettorale, un quorum. Un successivo decreto del 23 aprile aveva disposto che nelle singole circoscrizioni si procedesse “alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribuiti alla monarchia”.

Passando al senso della votazione, ricordo Indro Montanelli: “di coloro che avevano votato Repubblica, la stragrande maggioranza pochissimi si erano resi conto che, con la monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una coscienza nazionale. Ma, scomparso anche quello, il paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrata con una insolenza violenza proporzionale alla repressione per cui vent’anni l’aveva per vent’anni l’aveva sottoposto al fascismo, mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo.”

Per chiudere, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 Aprile 1948 il Ministro dell’Interno, Mario Scelba, tenne un comizio a Roma, in piazza del popolo, del quale dà notizia La Stampa di Torino che così riferisce le parole del Ministro: “Stavolta non si avranno brogli elettorali, come quelli che si ebbero il 2 giugno. Dallo scrutinio dei risultati di una sezione risultava che tutti avevano votato per la Repubblica. Ma il presidente disse: “Qui c’è un pasticcio senza dubbio. Mia moglie ha detto di avere votato per la monarchia e mia figlia lo stesso. Possono avere detto una bugia, come fanno le donne facilmente; ma il mio voto, per lo meno, ci deve essere. Io ho ben votato per la Monarchia. La mia scheda dove è andate a finire? Così la folla si divertiva”.

E così si spiega il carteggio, definito “curioso” da La Vallesusa, che vide protagonista il Re in esilio e una allora ragazzina torinese che oggi vive a Coazze: Franca Leporati. La giovanissima Franca, infatti, negli anni Settanta, scrisse un’accorata lettera all’ex re per manifestargli la sua vicinanza e il suo affetto. Un sentimento che poggiava sulle ragioni della storia d’Italia, divenuta una, dopo che “fummo da secoli/ calpesti, derisi/ perché non siam popolo/ perché siam divisi”, come recita l’Inno nazionale, per merito dei Re di Casa Savoia che, raccogliendo le istanze dei liberali provenienti da ogni angolo della Penisola, hanno messo in gioco il loro destino politico per scegliere l’Italia unita, dalle Alpi al Lilibeo. Un’avventura iniziata quando il Piccolo Piemonte entrò in guerra contro l’impero più potente dell’epoca, l’Austria-Ungheria. Non ci pensiamo mai quando ascoltiamo la Marcia del Maresciallo Radetzky, il comandante dell’armata austriaca, un mito nel mondo militare di quegli anni.