di Salvatore Sfrecola

 

A conclusione di una nota che riferisce di un “lungo e cordiale incontro” tra i vertici della Corte dei conti e i rappresentanti del Governo si legge che “prendendo atto della contrarietà della Corte, già manifestata con gli esecutivi precedenti nel 2020 e nel 2021, sul cosiddetto ‘scudo erariale’, il Governo ribadisce la necessità della proroga fino al 30 giugno 2024, ma auspica e si impegna a un confronto con la Corte per l’elaborazione di una disciplina più aggiornata e stabile”.

In proposito, in una nota (ITALPRESS), l’Associazione magistrati della Corte dei conti continua a esprimere preoccupazione per la decisione del Governo di “protrarre l’esclusione della responsabilità perché colpa grave commissiva pone rilevanti dubbi di costituzionalità e di compatibilità con la normativa eurounitaria e genera un clima di deresponsabilizzazione, che non rafforza, ma depotenzia, l’efficacia dell’azione amministrativa”.

Fuori del linguaggio ufficiale diciamo subito che lo “scudo erariale”, come viene definita la norma che esclude la risarcibilità del danno causato con colpa grave allo Stato o ad un ente da un pubblico amministratore o dipendente è una vergogna, perché assicura impunità a incapaci o disonesti.

La disposizione è stata per la prima volta inserita nel decreto legge n. 76 del 2020 il quale all’art. 21, comma 2, dispone che “limitatamente ai fatti commessi dalla data di entrata in vigore del presente decreto e fino al 31 dicembre 2021 (prorogato al 2023, n.d.A.), la responsabilità dei soggetti sottoposti alla giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilità pubblica per l’azione di responsabilità di cui all’articolo 1 della legge 14 gennaio 1994, n. 20, è limitata ai casi in cui la produzione del danno conseguente alla condotta del soggetto agente è da lui dolosamente voluta. La limitazione di responsabilità prevista dal primo periodo non si applica per i danni cagionati da omissione o inerzia del soggetto agente”.

In parole povere risponde del danno solamente chi dolosamente, cioè intenzionalmente, produce un danno. Lo vedete l’amministratore pubblico che emana un provvedimento con l’intenzione che ne derivi un danno, se non nei casi di corruzione nei quali il pubblico ufficiale riceve denaro o altra utilità (art. 318 c.p.), evidentemente per assicurare ad altri lucrosi guadagni a danno della finanza pubblica? Resta, dunque, esclusa la responsabilità in caso di “colpa grave”, altra ipotesi contenuta nell’art. 1 della legge n. 20/1994. Ora colpa grave, che per i romani “dolo aequiparatur”, che era tale quale il dolo, è l’azione caratterizzata da negligenza o imprudenza o imperizia ovvero da inosservanza di leggi, regolamenti, ordini o discipline, come qualifica la colpa l’art. 43 del codice penale. Naturalmente nella misura massima. Quella che i romani, che se ne intendevano, dicevano con le parole di Ulpiano “non intelligere quod omnes intellingunt”. Tradotto, non comprendere quello che tutti comprendono. 

Ora è inammissibile che un tale grado di negligenza o imperizia, capace di determinare un danno alla finanza pubblica, cioè a bilanci alimentati dalle imposte pagate dai cittadini, non sia risarcito, che il pubblico amministratore o funzionario che, nell’assumere le sue funzioni ha giurato di rispettare la Costituzione e le leggi, possa impunemente trascurare questo suo dovere.

Si sente dire che la norma, che è stata varata dal Governo Conte ai tempi della pandemia, serva a rassicurare i pubblici funzionari che, timorosi dell’azione risarcitoria di competenza della Corte dei conti, si rifiuterebbero di firmare. Si chiama giornalisticamente “timore della firma” o “amministrazione difensiva”, nel senso che questi funzionari si difenderebbero rifiutando di assumere la loro responsabilità. Con la conseguenza che, invece di punirli perché disonesti o incapaci, il Governo accede alla loro richiesta di impunità e li esenta da ogni responsabilità

La norma l’ha voluta Giuseppe Conte e l’ha confermata Mario Draghi. Ci si attendeva da un Governo “di destra”, che si dice cultore della legalità, che quella norma fosse eliminata. Invece viene prorogata sia pure con la promessa, a futura memoria, di “un confronto con la Corte per l’elaborazione di una disciplina più aggiornata e stabile”.

S’intende tipizzare la colpa grave? Può essere la strada giusta. Si poteva fare in pochi giorni. Si preferisce rinviare prorogando quella irresponsabilità totale che ogni giorno sui giornali racconta di sprechi e corruzione in giro per l’Italia soprattutto nell’acquisto di beni e servizi, a cominciare dalle famose mascherine acquistate a prezzi esorbitanti o di materiali costati cifre notevoli e rimasti inutilizzati. Povera Italia, cambiano i governi, gli italiani sperano nel nuovo, ma rimangono inevitabilmente delusi.

 

Sabato 20 maggio 2023, si è tenuto, regolarmente convocato, nella spendida Sala della Provincia di Rieti, il Consiglio Nazionale dell’Unione Monarchica Italiana, presieduto dal Presidente Nazionale, Avv. Alessandro Sacchi.

Dopo la relazione del Presidente Sacchi, sono seguiti gli interventi, tra gli altri, quello del Segretario Nazionale, Oronzo Cassa, e del Segretario Nazionale del Fronte Monarchico Giovanile, Amedeo Di Maio.

La riunione ha visto la partecipazione della maggioranza dei Consiglieri Nazionali.

da sx: Oronzo Cassa, Segretario Nazionale dell'U.M.I., l'Avv. Alessandro Sacchi, Presidente Nazionale dell'U.M.I, e il Prof. Alessio Angelucci, Segretario Provinciale di Rieti dell'U.M.I.

L'apertura dei lavori

di Salvatore Sfrecola

Quella che è andata in onda questa mattina nelle strade di Londra è la festa di un popolo, della sua storia, della sua identità culturale e spirituale. Di un popolo che è parte di una comunità internazionale, il Commonwealth (letteralmente “benessere comune”), che, nata intorno alla Corona inglese, oggi raggruppa 56 stati indipendenti con oltre due miliardi di persone. L’occasione della festa l’incoronazione di Re Carlo III, Sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, che, succeduto alla mamma, la Regina Elisabetta II, era già divenuto Re (“il Re è morto viva il Re”). Con lui la consorte, la Regina Camilla.

La cerimonia è stata seguita da centinaia di milioni di spettatori collegati da tutto il mondo, e stampa e televisioni ne hanno dato, fin dalla vigilia, diverse interpretazioni a seconda delle conoscenze e delle sensibilità dei singoli giornalisti. Più d’uno ha dimostrato di non saper andare oltre l’aspetto esteriore, già dal ricevimento di gala degli illustri ospiti, le teste coronate, le famiglie regnanti e non, i capi di stato i primi ministri e le massime autorità della terra. L’attenzione è stata attratta dalle uniformi di gala, dalle tiare di regine e principesse, gioielli preziosi confezionati nel corso dei secoli. E poi le immagini si sono soffermate sulla imponente sfilata delle Guardie del Re e delle altre rappresentanze delle Forze Armate, sul corteo reale, sulla carrozza dorata scortata dai cavalieri, fino ai paramenti indossati dal Re che già avevano rivestito i suoi predecessori.

La cerimonia, organizzata dal Duca di Norfolk, in quanto Earl Marshal (Conte Maresciallo d’Inghilterra), è quella di sempre, con qualche sprazzo di modernità e qualche semplificazione voluta proprio dal Re. Al centro, la solenne incoronazione nel corso della quale l’Arcivescovo di Canterbury, il vescovo più importante della Chiesa anglicana, della quale è capo il monarca stesso, ha posto sul capo di Re Carlo la corona di San Edoardo, all’interno di Westminster Abbey, seduto sulla “Coronation chair”, la sedia sulla quale, dal XIV secolo, si sono seduti i sovrani inglesi. Sotto il sedile la sacra Pietra del Destino in arenaria rossa, rubata da Edoardo I durante l’invasione inglese della Scozia nel 1296.

Conclusa la cerimonia, il corteo regale è rientrato a Buckingham Palace lungo un percorso animato da una folla multicolore e multietnica che si era costituita dalle ore precedenti con i fedelissimi accampati a sfidare i disagi della permanenza e della pioggia che non poteva mancare.

È facile per un osservatore superficiale dire che a Londra è andato in scena folclore, tradizioni formali che inevitabilmente qualcuno associa ad una Monarchia della quale non è sempre agevole comprendere il ruolo, considerato che il Re regna ma non governa, una formula propria delle monarchie parlamentari nelle quali il sovrano svolge una funzione arbitrale che assicura la presenza, al vertice dello stato, di una personalità che non è coinvolta negli interessi di potere dei partiti. Infatti, il Re non interviene mai nel dibattito politico limitandosi a brevi discorsi in occasioni speciali. Giorgio VI, il nonno di Carlo, in 9 minuti chiamò i sudditi alla guerra contro l’aggressione nazista, Elisabetta II in 4 minuti, vestita di verde, il colore della speranza, richiamò, gli inglesi all’impegno nella lotta al covid-19 perché reagissero con la stessa determinazione che li aveva caratterizzati in altri momenti della storia, concludendo con un beneaugurante “ci incontreremo ancora”.

È la forza del governo inglese, è la forza di un popolo. Ed a chi sosterrà che l’incoronazione di Re Carlo III è stata una sorta di antica fiaba slegata dalla realtà dei tempi nostri, dico che, a ben vedere, il sovrano inglese garantisce con la sua presenza quel sistema di pesi e contrappesi che caratterizzano il sistema costituzionale inglese dal 1215 quando, a seguito di un patto tra il sovrano e i comuni, i contribuenti, è stata stabilita la regola fondamentale della moderna democrazia secondo la quale il popolo autorizza il sovrano, cioè il governo, a prelevare le imposte e pretende che sia rendicontato quanto speso. Tutto semplice a dirsi, ma sulle rive del Tamigi, dove Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu ha studiato come funziona il rapporto tra parlamento governo e sovrano, si attua una forma di democrazia nella quale la sovranità effettivamente appartiene al popolo che la esercita attraverso la Camera dei comuni. Il dialogo è tra la maggioranza parlamentare che esprime il Primo Ministro, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di parlamentari, e l’opposizione alla quale è riconosciuto uno speciale statuto, un sistema che rappresenta, come insegna l’esperienza, una forma di governabilità certa, mentre il sovrano si tiene fuori, non rappresenta i partiti, non interviene nelle responsabilità dell’esecutivo. I lettori ricorderanno che la preannunciata visita del Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyn al Re non si è poi tenuta. Le questioni politiche sono di competenza del Governo che ne risponde dinanzi al Parlamento. Noi che siamo abituati ai plurimi interventi dei Presidenti della Repubblica che spesso cercano di condizionare il governo quando non è dello stesso “colore” della maggioranza che li ha eletti. Si chiama “moral suasion”, un’espressione ipocrita per coprire un’interferenza che a Londra sarebbe inammissibile.

Da ultimo, poiché alcuni giornali italiani hanno indicato il costo dell’incoronazione per il bilancio dello stato va segnalato l’indotto turistico straordinario, alberghi, ristoranti, musei, venditori di gadget e tutto quanto si accompagna alla presenza di visitatori. Così a fronte del costo dell’organizzazione dell’evento, in particolare per le misure di sicurezza attuate, stimato in poco più di 100 milioni di sterline, Antonio Caprarica su La7 ha indicato in oltre un miliardo e mezzo l’indotto che ha interessato vasti settori del commercio che qualcuno ha indicato in oltre tre miliardi. Non solamente in questi giorni, perché valutazioni autorevoli assegnano alla presenza della Monarchia il contributo di due punti al PIL inglese. Non male.

L’Unione Monarchica Italiana saluta Re Carlo III e la regina Camilla

L’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.) invia un caloroso e deferente saluto a Sua Maestà Carlo III, Re di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, ed alla Regina Camilla nel giorno della loro incoronazione.

I monarchici italiani augurano lunga vita al Re che rappresenta la continuità storica e l’identità culturale e spirituale del suo Popolo e garantisce, attraverso l’esercizio di una funzione arbitrale autenticamente indipendente dagli interessi dei partiti, il pieno dispiegarsi della democrazia parlamentare che proprio sulle rive del Tamigi ha avuto la sua consacrazione nella Magna Charta Libertatum fin dal 1215.

Roma, 05.05.2023

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

 

I monarchici festeggiano il 1° maggio e sollecitano maggiore attenzione per la sicurezza sui posti di lavoro

Dal 1890, regnante Umberto I, in Italia si celebra la Festa dei lavoratori, a ricordo delle battaglie combattute nel corso degli anni per la conquista di diritti concernenti le condizioni di lavoro, gli orari, i salari.

L’Unione Monarchica Italiana (U.M.I.), che auspica politiche capaci di aumentare l’occupazione e di accrescere il benessere dei lavoratori, ricorda al Governo e alla classe imprenditoriale l’esigenza di un rispetto effettivo e costante delle regole sulla sicurezza del lavoro, troppo spesso trascurate, come denuncia ancora in questi giorni l’intollerabile, drammatica conta delle vittime.

I monarchici italiani guardano alla Festa dei lavoratori come un’occasione per migliorare ulteriormente le condizioni di lavoro e retributive, finalmente adeguate ad una economia tra quelle più sviluppate in Europa e nel mondo.

Roma,29.04.2023

Il Presidente Nazionale

Avv. Alessandro Sacchi

di Salvatore Sfrecola

Inizia ad operare a Roma, in via Riccardo Grazioli Lante, 15/A, il “Centro Studi Storici, Politici e Giuridici Vittorio Emanuele Orlando”, Associazione senza scopo di lucro nata per promuovere la conoscenza della storia e della evoluzione delle istituzioni pubbliche e concorrere alla individuazione di riforme concernenti l’organizzazione e il funzionamento dello Stato. L’Associazione, pertanto, anche in collaborazione con istituzioni di altri paesi dell’Unione Europea, condurrà studi storici, politici e giuridici attraverso attività di ricerca e formazione; organizzerà corsi, conferenze, convegni e manifestazioni anche mediante pubblicazioni a stampa e in via telematica.

Perché, dunque, Vittorio Emanuele Orlando? È stato individuato come una personalità che ha attraversato un secolo di storia italiana (Palermo 19 maggio 1860 – Roma 1° dicembre 1952), capace di rappresentare i vari interessi che l’Associazione intende perseguire, per essere stato un esponente di primo piano della cultura democratica e liberale, giurista e storico insigne, fondatore della scuola italiana del Diritto pubblico, e poi politico di grande spessore, Ministro dell’interno, dell’istruzione e di Grazia e Giustizia, che allora aveva anche il compito – in assenza di rapporti diplomatici – di tenere relazioni ufficiose con la Santa Sede. Presidente del Consiglio dei ministri dal 30 ottobre 1917 al 23 giugno 1919 Orlando, parlamentare nelle legislature XX, XXI, XXII, XXIII, XXIV, XXV, XXVI, XXVII, fu più volte Presidente della Camera dei deputati. Deputato all’Assemblea Costituente è stato Senatore della Repubblica.

Contestualmente all’attività scientifica e all’insegnamento universitario Orlando svolse un’importante vita politica. Nel 1897 fu eletto deputato del collegio di Partinico, dove fu sempre rieletto fino al 1925, quando si dimise da parlamentare. Schierato con Giolitti, dovette subito affrontare da parlamentare, nel periodo politico più agitato e pericoloso del Regno, prima dell’avvento del Fascismo, il compito di sventare, insieme con socialisti, repubblicani, radicali e giolittiani, mediante il ricorso all’ostruzionismo parlamentare, il tentativo reazionario del Pelloux dopo l’assassinio del Re Umberto I.

Dopo Caporetto, il 30 ottobre 1917 fu chiamato alla presidenza del Consiglio dei ministri, in sostituzione di Paolo Boselli. Nelle difficili circostanze del momento volle mantenere anche Ministero dell’interno. Concordò con il Re la nomina di Amando Diaz a Capo di Stato Maggiore dell’Esercito. Fu una scelta felice. Volle incitare gli italiani ad avere fiducia nella vittoria e il 22 dicembre 1917 alla Camera il suo richiamo fu perentorio: “La voce dei morti e la volontà dei vivi, il senso dell’onore e la ragione dell’utilità, concordemente, solennemente ci rivolgono adunque un ammonimento solo, ci additano una sola via di salvezza: resistere! resistere! resistere!”.

È noto al grande pubblico per aver rappresentato il Regno d’Italia alla Conferenza di pace di Parigi del 1919 insieme al Ministro degli esteri Sidney Sonnino, a seguito della vittoria italiana al fianco della Triplice Intesa contro gli Imperi centrali. Ciò che gli valse l’appellativo di “Presidente della Vittoria”.

Nonostante l’esito delle trattative da lui condotte fosse stato giudicato da larghi settori dell’opinione pubblica come una “vittoria mutilata” rispetto alle aspettative e alle indicazioni del Trattato di Londra, Orlando si considerò soddisfatto degli esiti politici della guerra. Il 15 dicembre 1919 dichiarò al Senato che “l’Italia è oggi un grande Stato, non già per virtù di un’indulgente concessione diplomatica, ma perché essa ha rivelato una capacità di azione e di volere che la pareggia effettivamente ai più grandi Stati storici e contemporanei. È questo, secondo me, il primo e principale ingrandimento…non vi sono solo questioni economiche e territoriali che senza dubbio hanno per l’Italia un’importanza incomparabile ma vi è altresì tutto l’assetto etico e politico del mondo…”. 

Lasciato il governo, dal 1919 al 1920 fu presidente della Camera dei deputati e nel 1921 fu rieletto alla Camera.

L’avvento del Fascismo vide Orlando, come altri esponenti liberali, in un primo tempo tra i benevoli sostenitori del Governo Mussolini. Fece parte, con Antonio Salandra, e Gaetano Mosca della commissione incaricata di esaminare il progetto di legge Acerbo, che assegnava al partito o alla coalizione che avesse ottenuto alle elezioni almeno il 25% dei voti i due terzi dei seggi parlamentari. Don Sturzo scrisse in seguito a questo proposito: “Vedi la strana sorte di questi illustrissimi uomini di diritto, professori e consiglieri di Stato, quali Salandra, Orlando, Perla e Mosca. Appartenenti alla più pura tradizione liberale e Orlando per di più democratico di razza, sono obbligati a cancellare il loro passato, a dichiarare la bancarotta del liberalismo, a forzare la storia del diritto pubblico, a proclamare il dogma del diritto delle minoranze soverchiatrici, per arrivare a costituire un governo che non è più il governo del Re, né il governo del popolo, ma il governo della fazione dominante vestita della legalità di pseudo – maggioranza…”.

Eletto in Sicilia nel “listone” alle elezioni dell’aprile 1924, sostenne di essere rimasto il liberale democratico di sempre. Dopo il famoso discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925, che segnò la formale instaurazione della dittatura, con la successiva messa fuori legge dei partiti e gli altri provvedimenti autoritari fu all’opposizione.

Nel 1931, il collocamento a riposo dall’insegnamento universitario per raggiunti limiti d’età gli risparmiò di dover scegliere se giurare fedeltà al regime, e nel 1934 si dimise insieme a Benedetto Croce dall’Accademia dei Lincei per non farlo. 

Orlando, con altri esponenti del prefascismo, fu consultato riservatamente dal Re Vittorio Emanuele III nel luglio 1943 nel corso della preparazione della defenestrazione di Mussolini. Redasse di suo pugno il testo del proclama firmato da Badoglio che annunciava la caduta del Fascismo e la continuazione della guerra; appoggiò i governi di unità nazionale, ma fu diffidente verso i successivi governi centristi, cui rimproverava di non porre in primo piano i motivi politici dell’indipendenza e della dignità nazionale.

Con il decreto-legge luogotenenziale 25 giugno 1944, n. 151, il Presidente del Consiglio Ivanoe Bonomi lo nominò Presidente della Camera dei Deputati, fino al 25 settembre 1945. Consultore nazionale dal novembre 1945 al giugno 1946, Presidente della commissione esteri, fu eletto deputato alla Costituente nella lista “Unione Democratica Nazionale”, dal 1946 al 1948. Fece clamore nel 1947, il suo discorso in occasione del dibattito parlamentare per la ratifica del trattato di pace, in cui accusò De Gasperi di “cupidigia di servilismo”.

Fu senatore di diritto nella I legislatura repubblicana, dal 1948 alla morte. Fece la sua ultima battaglia parlamentare a 92 anni, in opposizione alla riforma della legge elettorale che introduceva il premio di maggioranza, proposta bollata come “legge truffa”. Dal 1950 al 1952 fu anche Presidente del Consiglio Nazionale Forense.

Morì nel 1952. È sepolto nella Basilica di Santa Maria degli Angeli e dei Martiri a Roma.

Per i giuristi Orlando è un riferimento ineludibile, l’autore di oltre un centinaio di lavori, su questioni legali e giudiziarie che hanno lasciato un segno nell’evoluzione della cultura giuridica. 

Figlio di Camillo Orlando, avvocato, e di Carmela Barabbino, si dedicò con passione agli studi giuridici, in particolare al diritto pubblico. Nel 1880, non ancora laureato, vinse un concorso indetto dall’Istituto Lombardo di Scienze e Lettere per uno studio sulla riforma elettorale, tema in quegli anni molto dibattuto, che fu pubblicato con il titolo “Della riforma elettorale” nel 1881 alla vigilia dell’approvazione parlamentare della riforma. Questo stesso studio gli permise, una volta laureato, di ottenere la libera docenza e la cattedra di Diritto costituzionale all’Università di Palermo. Insegnò, poi, a Modena, Messina, e ancora a Palermo nel 1889 alla cattedra di Diritto amministrativo, dove per un periodo tenne anche l’insegnamento di Istituzioni di Diritto romano (per il quale scrisse anche un manuale).

Le sue due opere più importanti sono i Principi di diritto costituzionale del 1889 e i Principi di diritto amministrativo del 1890. Queste due opere di manualistica generale sono considerate l’atto fondativo della moderna giuspubblicistica italiana. Con esse Orlando metteva in pratica una vera e propria rivoluzione metodologica, al centro della quale stava la necessità di espellere dallo studio del diritto pubblico, ogni sociologismo e ogni osservazione di carattere politico storico o filosofico. 

Il merito principale di Orlando è quello di aver costruito un sistema dogmatico razionale del diritto pubblico, in linea con la riflessione che si andava sviluppando in Germania. I suoi principi di diritto costituzionale e di diritto amministrativo sono considerati gli “atti fondativi della moderna giuspubblicistica italiana”. In quel periodo la scienza del diritto amministrativo si era sviluppata assumendo piena legittimità scientifica, come dottrina distinta da quella civilistica e l’impostazione metodologica degli studi seguiva quella esegetica adottata dai giuristi francesi, che si avvaleva di analisi comparatistiche, di ricerche sulla tradizione storica, di considerazioni sui costumi e sulla cultura della società. Un metodo, questo, che dominava anche negli studi di diritto costituzionale. Orlando spezzò questa tradizione metodologica. “Affascinato dagli studi pandettistici e dalle conclusioni cui stava pervenendo la pubblicistica tedesca, egli propose la costruzione di un sistema teorico unitario riguardante il solo diritto pubblico prodotto dallo Stato, all’interno del quale la pluralità delle norme potesse essere articolata in categorie astratte unitarie e queste, fondate su principi teorici generali, fossero collegate tra loro in termini logico-razionali. Anche per Orlando, allora, il diritto era solo quello prodotto dallo Stato e il sistema giuridico doveva riguardarlo in via esclusiva, con una netta separazione tra ordinamento giuridico da un canto, società, sua storia, realtà economica, cultura tradizionale, principi giusnaturalistici, scelte politiche dall’altro. In altre parole, un sistema giuridico dogmatico e puro, incentrato sullo Stato-persona. Le linee essenziali di questo indirizzo vennero presentate da Orlando nel primo numero dell’Archivio di diritto pubblico, la rivista da lui fondata nel 1891, dove affermò che gli studi di diritto amministrativo dovevano porsi gli obiettivi di definire in maniera rigorosa il “nesso sistematico tra le varie parti della scienza”, di separare gli aspetti giuridici da quelli sociali ed economici dell’attività dello Stato, di costruire gli istituti giuridici dell’amministrazione statale, anche di quella finanziaria. Il fine ultimo era, allora, la definizione del sistema dei principi giuridici che regolano l’attività statale” (M. Caravale, Storia del diritto nell’Europa moderna e contemporanea, Laterza, Bari, 2012, 391). In linea con quanto la dottrina tedesca andava facendo in Germania sulla direttrice teorica che da Gerber conduceva a Laband e infine a Jellinek. L’affermazione della personalità giuridica dello Stato, la teoria del governo di gabinetto (fondata sul principio della doppia investitura, parlamentare e monarchica) e, infine, il diritto di voto interpretato non già come diritto individuale ma come esercizio di una pubblica funzione.

Nonostante l’assoluta centralità dello Stato, occorreva però trovare una collocazione teorica anche alla dimensione sociale. A questo scopo, Orlando ricorre al concetto di popolo, un concetto anch’esso derivato dalla dottrina tedesca e più in particolare dalla lezione di Savigny. Un popolo, quello di Orlando, che quindi va interpretato non in senso volontaristico, ma come una realtà storico-naturale, custode dei costumi, delle tradizioni, della lingua. 

Imponente la sua produzione scientifica che prese avvio dal volume “Della riforma elettorale”, Milano, 1881. Poi “Le fratellanze artigiane in Italia”, Firenze, 1884; “Della resistenza politica individuale e collettiva”, Torino, 1885; “Principi di diritto costituzionale”, Firenze, 1889; “Principi di diritto amministrativo”, Firenze, 1890; “Teoria giuridica delle guarentigie della libertà,” Torino, 1890; “Primo trattato completo di diritto amministrativo”, in 10 volumi tra il 1900 e il 1932; “La giustizia amministrativa”, Milano, 1901; “Le régime parlamentaire en Italie”, Parigi, 1907; “Lo Stato e la realtà”, Milano, 1911; “Discorsi per la guerra”, Roma, 1919; “Crispi”, Palermo, 1923, “Discorsi per la guerra e per la pace”, Foligno, 1923; “Diritto pubblico generale e diritto pubblico positivo”, Milano, 1924; “Recenti indirizzi circa i rapporti fra diritto e Stato”, Tivoli, 1926; “L’opera storica di Michele Amari”, Milano, 1928; “Su alcuni miei rapporti di governo con la Santa Sede”, Napoli, 1929; “Immunità parlamentari e organi sovrani”, Tivoli, 1933; “Diritto pubblico generale”, Milano, 1940; “Scritti vari di diritto pubblico e scienza politica”, Milano, 1940; “Memorie (1915 – 1919)”, Milano, 1960 (a cura di Rodolfo Mosca); “Discorsi parlamentari”, Bologna, 2002.

In qualche modo il “Centro Studi Storici, Politici e Giuridici Vittorio Emanuele Orlando” prende il posto, nel panorama culturale e politico romano del Circolo di Cultura ed Educazione Politica “Rex” che ebbe, tra i più noti dei suoi presidenti l’avv. Carlo d’Amelio che di Vittorio Emanuele Orlando è stato allievo.