Parola di Re
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L'UMI è istituita per raccogliere e guidare tutti i monarchici, senza esclusioni, al fine di ricomporre in sè quella concordia discors che è una delle ragioni d'essere della Monarchia e condizione di ogni progresso politico e sociale. Suo compito non è la partecipazione diretta alla lotta politica dei partiti, ma la affermazione e la difesa degli ideali supremi di Patria e libertà, che la mia casa rappresenta.
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Cosa insegna il caso Salvini, tra politica e amministrazione
di Salvatore Sfrecola
( tratto da:https://www.unsognoitaliano.eu/2020/08/01/cosa-insegna-il-caso-salvini-tra-politica-e-amministrazione/)
La vicenda dell’autorizzazione del Senato a processare Matteo Salvini, per attività connesse al suo ruolo di Ministro dell’interno, nel caso Open Armas, la nave spagnola giunta dinanzi alle nostre coste con un carico di clandestini raccolti in acque territoriali di altri paesi, merita un approfondimento sotto due profili, entrambi politici. In primo luogo perché l’Assemblea di Palazzo Madama ha abdicato al suo ruolo di verifica politica della imputazione penale (sequestro di persona ed abuso d’ufficio) sotto il profilo dell’interesse pubblico perseguito dal ministro, nonché sotto il profilo, anch’esso politico, dei rapporti tra La Lega, della quale Salvini è Segretario e l’Amministrazione dell’interno.
Sotto il primo aspetto non c’è dubbio che il Senato avrebbe dovuto valutare l’esistenza di un interesse pubblico, coerente con il programma di governo, nell’azione di contrasto all’immigrazione clandestina, così come posta in essere dal Ministro. Quell’azione non può non implicare la responsabilità politica dell’intero Gabinetto e, in primo luogo, del Presidente del Consiglio dei ministri, Giuseppe Conte. Questi, infatti, ai sensi dell’art. 95 della Costituzione “dirige la politica generale del governo e ne è responsabile. Mantiene l’unità di indirizzo politico ed amministrativo, promuovendo e coordinando l’attività dei ministri”.
Qualunque osservatore, infatti, avrà avuto la consapevolezza, anche per l’ampio risalto che sulla stampa ha avuto la vicenda di nave Open Arms come in precedenza di nave Diciotti, che l’intero governo fosse a conoscenza di come Il ministro dell’Interno stesse gestendo il caso dei soggetti a bordo della nave Open Armas, battente bandiera spagnola, alla ricerca di un “porto sicuro” nel quale far sbarcare quanti aveva raccolto in mare. È chiaro che, in presenza di notizie di stampa, che riferivano le critiche dell’opposizione quanto al rispetto delle regole sancite dai trattati internazionali sulla salvaguardia della vita umana in mare, il Presidente del consiglio, se non avesse condiviso l’azione del suo ministro, avrebbe dovuto esercitare il suoi poteri di indirizzo e di coordinamento intervenendo direttamente, eventualmente provocando un approfondimento della questione in apposita riunione del Consiglio dei ministri. Non avendolo fatto è evidente che il Presidente del Consiglio ha condiviso le iniziative del suo ministro e nessun altro ministro ha dimostrato di ritenere che fosse necessario, nella sede collegiale propria del Governo, verificare la coerenza dell’azione del Ministro dell’interno rispetto alla politica dell’Esecutivo.
È, pertanto, di palmare evidenza che il Senato, chiamato ad una valutazione politica della richiesta della Magistratura, avrebbe dovuto escludere la responsabilità “politica” del ministro quanto al mancato perseguimento dell’interesse nazionale come espresso nell’indirizzo politico governativo.
Ma c’è un altro profilo che, per altri versi, mi sembra ancora più preoccupante, anche nella prospettiva di una vittoria elettorale del centrodestra e, quindi, dell’assunzione di responsabilità di governo. Mi riferisco al rapporto del Ministro Salvini con l’Amministrazione dell’interno. È mia opinione, infatti, che dalle vicende del contrasto all’immigrazione clandestina via mare emerga in modo molto evidente una inadeguata assistenza dell’Amministrazione al Ministro, non supportato in modo che fosse al riparo da errori politici e giuridici. Il ruolo dei Consiglieri del ministro, di quelli che operano nell’ambito degli uffici di diretta collaborazione, e dell’Amministrazione in generale, è proprio quello di assistere il Ministro consigliandolo al meglio, aiutandolo a valutare gli effetti politici dei suoi atti politicamente più significativi, e le conseguenze che ne potrebbero derivare sul piano giuridico.
Non è evidentemente accaduto, per due possibili motivi. Forse il Ministro non si è fidato dei suoi collaboratori e pertanto ha fatto di testa propria, oppure Il dialogo con la dirigenza dell’Amministrazione è stato difficile, d
irettamente o, come sempre accade, per il tramite del Capo di gabinetto o di un Consigliere giuridico.
È un problema risalente che ha sempre creato problemi nel Centrodestra. I Ministri, spesso neofiti di incarichi di governo, ritengono, per il solo fatto di essere preposti ad un ministero, di poter ottenere tutto quello che pretendono, indipendentemente da quel che prevedono le leggi e consente l’organizzazione dell’Amministrazione e la sua capacità operativa. Molti ministri ritengono che l’Amministrazione sia loro ostile e che, se viene frapposta una difficoltà questa non è giustificata, come spesso fanno intendere i collaboratori di partito i quali mai si permetterebbero di mettere in dubbio la scelta del Ministro. Avviene, così, che il dialogo tra Ministro e struttura diviene difficile, soprattutto se la dirigenza amministrativa percepisce che il Capo di gabinetto, la voce del ministro verso l’Amministrazione, non gode della completa fiducia dell’esponente politico, perché magari politicamente estraneo alla sua filosofia. I collaboratori sono tecnici ma devono disporre di una sensibilità politica e della capacità di guardare agli effetti dell’azione amministrativa in rapporto al programma di governo. Si è sentito dire da un ministro del governo giallo-verde che il capo di gabinetto gli era stato “imposto”. E non si è neppure vergognato. Chi si fa imporre il Capo di gabinetto non è in condizioni di fare il ministro.
Sfugge, infatti, spesso che l’Amministrazione, i funzionari devono “sopravvivere” al ministro di turno, nel senso che non s’impegnano più di tanto se non c’è tra politica e amministrazione quel feeling che molti politici nel tempo hanno assicurato. E non c’è bisogno di tornare al classico Camillo di Cavour, che aveva una straordinaria capacità politica ed una profonda conoscenza dell’Amministrazione, perché in tempi più recenti ministri come Giulio Andreotti, Amintore Fanfani, Aldo Moro e Giovanni Prandini, per non dire che dei più noti al grande pubblico, hanno ottenuto dall’Amministrazione il massimo possibile di collaborazione. Quei politici conoscevano le regole dell’Amministrazione, fatti e uomini, e sapevano di chi si potevano fidare e ai loro collaboratori la struttura riconosceva prestigio, competenza e senso dello Stato.
Se non c’è questo rapporto è chiaro che i dirigenti si ritraggono, fanno il minimo e magari non fanno presente che alcune cose non si possono fare o non si possono fare in quel modo o in quel momento. E il Ministro naufraga. I dirigenti, come ho detto, che sono “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), devono sopravvivere al ministro di turno e questo significa che non si esporranno mai per non cadere sotto la tagliola del successore, se di altra maggioranza. È anche il motivo per il quale normalmente il Capo di gabinetto è un estraneo all’amministrazione, il più delle volte un magistrato amministrativo, del Consiglio di Stato o della Corte dei conti o un Avvocato dello Stato, che, al termine della collaborazione con un dato ministro, non deve rendere conto ai colleghi di quel che ha o non ha fatto nel ministero.
Salvini non ha avuto consigli adeguati o non li ha seguiti? È in ogni caso quel che ci dice la vicenda che si è malamente conclusa al Senato e che ha riguardato in diversi contesti altri ministri, non solo della Lega, ovviamente, anche se per questi è molto più grave per quel tanto, ma evidentemente insufficiente, di esperienza di governo che vantano nelle regioni e negli enti locali.
Impareranno Salvini ed i suoi? Ne dubito molto. Nel DNA del politico c’è molta arroganza e presunzione e la convinzione che il suffragio elettorale sia un crisma che assicuri autorevolezza. C’è autorità che, se spesa male, danneggia la persona ed il partito che lo ha scelto per quel ruolo.
L'opinione di Giuseppe Borgioli
A CHE SERVE UN RE ?
di Giuseppe Borgioli
Le mele marce sono sempre di più. Inadeguato il reclutamento all’ingresso e nella catena di comando
di Salvatore Sfrecola
Le mele marce ci sono sempre state, dappertutto. Generali che hanno passato informazioni al nemico, funzionari del fisco e magistrati corrotti, agenti delle Forze dell’ordine infedeli, docenti delle scuole di ogni ordine e grado che hanno dato scandalo. E tutte le volte ci siamo indignati, come nel caso degli eventi delittuosi che si sente dire sarebbero avvenuti nella Caserma dei Carabinieri di Piacenza, dopo esserci stupiti che sia stato possibile. Continuiamo ad indignarci sempre più spesso e questo vuol dire che i casi sono aumentati. Che, in primo luogo, si è eclissato il senso dello Stato, la fedeltà alle istituzioni, il rispetto della legge per il pubblico dipendente che la Costituzione ricorda essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98) e deve adempiere le funzioni pubbliche che gli sono affidate “con disciplina ed onore” (art. 54). A monte c’è evidentemente un problema di adeguatezza dei soggetti inseriti nella catena di comando perché, secondo il detto popolare, antico ed efficace, “il pesce puzza dalla testa”. C’è un problema di reclutamento all’ingresso e nella progressione nelle funzioni. Che non è più orientato ad una rigida selezione professionale e morale dei pubblici dipendenti. Un tempo, oltre a prove scritte ed orali capaci di verificare la conoscenza delle materie professionali, c’era anche la “buona condotta”, un requisito che si basava sull’assenza di precedenti penali che, pur non dando luogo alla cancellazione dalle liste elettorali, quindi alla perdita del godimento dei diritti politici, potevano assumere rilevanza sul piano della condotta morale e civile del cittadino. La legge 29 ottobre 1984, n. 732, ha eliminato il requisito dallo Statuto degli impiegati civili dello Stato. Diminuite le prove selettive, disarticolato il sistema organizzativo con il ripetuto passaggio generalizzato alle qualifiche o ai livelli superiori, in conseguenza di una regola folle, tutta italiana, secondo la quale il trattamento economico cresce in modo significativo solamente se si è promossi ad una qualifica o ad un livello superiori, era inevitabile che avremmo assistito al progressivo sfascio delle strutture pubbliche. L’italica fantasia, con la complicità dei sindacati legati ai partiti politici, ha inventato ogni possibile trasformazione dei ruoli e delle funzioni. Non ci sono più da tempo il gruppo A, B e C, che distinguevano le carriere direttive, di concetto ed esecutive, non le qualifiche corrispondenti a strutture amministrative, la sezione con il Capo Sezione, la Divisione con il Capo divisione. Qualcuno avrà visto un famoso film, Monsù Travet, con Carlo Campanini che impersona un modesto impiegato ansioso di corrispondere alle disposizioni di un Capo Sezione sempre incombente. Una volta si cita il Commendatore, il Capo Divisione, mai il direttore generale. Oggi i direttori generali sono centinaia, spesso preposti a micro strutture, anche solamente di una decina di persone. Chi ricorda che il direttore generale era nel cosiddetto “ordinamento gerarchico” il grado quarto della Pubblica Amministrazione, che nelle Forze Armate corrispondeva a Generale di divisione. L’avete mai visto un generale a due stelle comandare una divisione di dieci soldati? Del resto la Provincia di Roma aveva un Generale di brigata alla guida della Polizia Provinciale, un centinaio di elementi, la consistenza di una compagnia. Roba da tenente o, al più, da capitano.
Ancora un esempio. Alcuni giorni fa, essendomi recato in un ufficio della Polizia Municipale di Roma in portineria mi ha accolto un agente molto gentile che sulla spallina recava due stelle. Un tempo erano le insegne di un tenente. Ancora. Quando si veniva fermati da una pattuglia dei Carabinieri la comandava un vice brigadiere o un brigadiere. Oggi la medesima pattuglia è formata da due o tre marescialli, un grado importantissimo nella struttura di comando, alla guida di una Stazione, il presidio territoriale dell’Arma. Ancora, non me ne vogliano gli amici generali, ma tutti questi Generali di Corpo d’Armata quando non ci sono Corpi d’Armata che ci stanno a fare, che senso hanno, se non per arricchire un biglietto da visita.
Come mai nei film polizieschi in America la polizia delle grandi città è comandata da un tenente o da un capitano? Il Tenente Colombo è passato alla storia del cinema.
Sviliti i gradi, sono risultate svilite le relative funzioni. Un disastro, insieme ai passaggi di livello senza vere selezioni, per finire con l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo 165 del 2001 un “dirigentificio” di amici dei politici. Persone che non hanno mai vinto un concorso, anzi che non hanno mai pensato di farlo, si trovano dirigenti per essere stati al seguito del politico di turno. Con l’effetto di mortificare i funzionari di carriera nelle loro legittime aspirazioni. Altro si potrebbe dire. Ad esempio che i Carabinieri un tempo reclutavano direttamente i loro allievi e li formavano rigidamente. Oggi li prendono dall’esercito essendo diversamente addestrati e se sono fuorviati, quanto a senso dello Stato e dell’onore, non c’è più possibilità di addrizzarli. Mi fermo qui. Disgustato. Le mele marce sono davvero troppe.
L'opinione di Giuseppe Borgioli
QUANDO LA CASA BRUCIA
di Giuseppe Borgioli
I fondi messi a disposizione dall’ Unione Europea si prenderanno la consistenza di moneta sonante in tempi che non è dato prevedere. Per ora resta l’ammontare del debito che lasciamo come onerosa eredità ai nostri figli e nipoti. Oh, lo sappiamo anche noi poveri provinciali che il debito si vende…… sino a che si trova da venderlo altrimenti non resta che trovare l’acquirente, questa volta non cinematografico, della fontana di Trevi. Non è difficile l’esercizio della Cassandra in una situazione così disastrata. Le finanze pubbliche servono solo per escogitare voci di debito atte a sanare temporaneamente gli interessi sul debito. Marco Minghetti e Quintino Sella inorridirebbero. L’Unita d’Italia è stata falla su ben altre basi e in tutti decenni successivi la linea del Piave della buona finanza è stata osservato scrupolosamente. Anche all’indomani della seconda guerra mondiale, le finanze italiane seppero stare al passo con le necessità insorte. Come è accaduto improvvisamente che prendesse piede questa ubriacatura della spesa facile e del debito insolvente per definizione è un mistero che anch’io non riesco a spiegarmi. Illustri accademici, premi Nobel, e si parva licet i nostri esperti di economia che non volevano passare da provinciali si sono prodigati nel giustificare la moltiplicazione del debito con la illusione come nella commedia dell’arte che qualcuno pagherà. Oggi la situazione è così degenerata che nessuno ha il buon gusto di parlare del debito in società. Tutti fanno a gara, destra e sinistra, nel promettere e accennano al debito solo per dire come spenderlo. Conosco anch’io, perché le ho studiate, le teorie di Keynes e non faccio uno sforzo per capire le buone intenzioni dell’economista inglese cha infine ebbe ad affermare “perché non sono Keynesiano”. Spendere è più facile che risparmiare. Lo sanno bene i politici di mestiere che non pronunciano volentieri il monosillabo “no”. Sergio Ricossa aveva scritto in tempi non sospetti un divertente libretto dedicato principalmente alle nuove teorie economiche e monetarie: “I fuochisti della vaporiera”, poiché se la locomotiva del debito pubblico ha progredito a ritmi impensabili vuol dire che c’è stato chi non ha fatto mancare il combustibile. Negli ultimi 40 anni non mi risulta che ci sia stato governo o ministro delle finanze che sia andato in contro tendenza. Tutti, destra e sinistra, spendaccioni? Quale diabolico spiritello si è impossessato delle nostre menti e dei nostri stili di vita? Siamo stati frugali anche noi, per la verità siamo stati poveri. Forse proprio la nostra antica povertà ci ha portati al consumismo dei nostri tempi, al possedere come febbre collettiva. Ma le cose stanno prendendo una brutta piega e a nulla valgono le trovate furbesche. Mi ha molto colpito una intervista di un programma di storia alla Regina Maria Josè andato in onda la scorsa settimana. Alla domanda di un anonimo intervistatore come Sua Maestà avesse trovato la forza di fare quello che fece in un momento di vera emergenza, la Regina ha sussurrato con un fil di voce: “Quando la casa brucia…”