di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unsognoitaliano.eu/2021/08/11/11-giugno-1900-vittorio-emanuele-assume-le-funzioni-di-re-dinanzi-al-senato/ )

Signori Senatori e Signori Deputati! Il mio primo pensiero è per il mio popolo ed è pensiero di amore e di gratitudine. Il popolo che ha pianto sul feretro del suo Re, che affettuoso e fidente si è stretto intorno alla mia persona, ha dimostrato quali solide radici abbia nel Paese la monarchia liberale. Da questo plebiscito di dolore traggo i migliori auspici del mio regno. La nota nobile e pietosa, che sgorgò spontanea dall’anima della Nazione, mi dice che vi ha ancora nel cuore degli italiani la voce del patriottismo, che ispirò in ogni tempo miracoli di valore. Sono ben lieto di poterla accogliere.

Quando un popolo ha scritto nel libro della Storia una pagina come quella del nostro Risorgimento, ha diritto di tenere alta la fronte e di mirare alle più grandi idealità. Ed è a fronte alta e mirando alle più grandi idealità che io mi consacro al Paese con tutta l’effusione ed il vigore di cui mi sento capace, con tutta la forza che mi danno gli esempi e le tradizioni della Casa.

Signori Senatori e Signori Deputati! Impavido e sicuro ascendo il trono, con la coscienza dei miei diritti e doveri di Re. L’Italia abbia fede in me come io ho fede nei destini della Patria e forza umana non varrà a distruggere ciò che i nostri padri hanno, con tanta abnegazione, edificato. Non mancherà mai in me la più serena fiducia nei nostri liberali ordinamenti e non mi mancheranno la forte iniziativa e la energia dell’azione, per difendere vigorosamente le gloriose istituzioni del Paese. Invoco Dio in testimonio della mia promessa, che da oggi in poi il mio cuore, la mia mente, la mia vita offro alla grandezza ed alla prosperità della Patria.

Ed apre alle riforme sociali dell’età giolittiana

“Monarchia liberale”, “liberali ordinamenti”, “diritti e doveri di Re”. Poche parole, ad 11 giorni dalla morte del padre, il Re Umberto I, per mano dell’anarchico Bresci, parole che segnano un cambio radicale nella storia d’Italia. Scritte di proprio pugno, avendo scartato il testo che gli aveva preparato il Presidente del Consiglio Saracco, quel brevissimo discorso apre a quelle riforme che caratterizzeranno la cosiddetta “età Giolittiana”, nel corso della quale l’Italia conoscerà un significativo progresso in campo economico e sociale.

Aveva 31 anni il giovane Re, al quale, sull’onda dell’indignazione per il regicidio, era stata suggerita una stretta contro i movimenti anarchici, socialisti e repubblicani. Percepisce immediatamente le esigenze delle classi più umili che, soprattutto nelle aree più arretrate del Paese, vivevano condizioni di grave disagio. E si affida ad un solido uomo di governo, un liberale secondo la migliore tradizione avviata da Cavour, come il Conte profondo conoscitore della macchina pubblica, un’esperienza, maturata come magistrato della Corte dei conti e del Consiglio di Stato, che gli tornerà utile per attuare rapidamente riforme che collocheranno l’Italia in una posizione di avanguardia in Europa.

Re e Primo Ministro all’unisono porteranno l’Italia verso traguardi importanti. La difesa dei conti pubblici, le riforme sociali, la perequazione tributaria ed i miglioramenti economici alle categorie più disagiate, “contengono in nuce le linee direttive della sua futura politica sulla libertà del lavoro e sulla neutralità dello Stato nelle controversie sindacali” (Spadolini). Intervenendo alla Camera il 4 Febbraio 1901 Giolitti aveva detto “il governo quando interviene per tener bassi i salari commette un’ingiustizia, un errore economico e insieme politico. Commette un’ingiustizia perché manca al suo dovere di assoluta imparzialità fra i cittadini prendendo parte alla lotta contro una classe. Commette un errore economico, perché turba il funzionamento della legge economica dell’offerta e della domanda, la quale è la sola legittima regolatrice delle misure dei salari come dei prezzi di qualsiasi merce. Il governo commette infine un errore politico perché rende nemiche dello Stato quelle classi le quali costituiscono la maggioranza del paese”.

Il fine dello statista piemontese, scrive ancora Spadolini, “era uno soltanto: permettere allo Stato italiano di superare la prova definitiva, conciliandosì le masse operaie, richiamando alla legalità e alla libertà quelle forze popolari che si riallacciavano ancora per tanta parte alla tradizione anarchico – reazionaria” Era semplicemente “un liberale moderno, illuminato”.

Sono gli anni nei quali l’Italia cresce, si sviluppa e si trasforma e passa dalle forme oligarchiche e censitarie alla democrazia ed al suffragio universale (1912), senza mai rinunciare alle grandi direttive del liberalismo cavouriano, ai punti fermi della “religione del Risorgimento”. È il periodo nel quale il culto del Parlamento viene praticato ed esaltato da Giolitti secondo l’insegnamento del Conte di Cavour contro tutte le restrizioni alle libertà statutarie, contro tutte le velleità reazionarie ed autoritarie che sul finire del secolo avevano fatto da l’incubatrice del malessere sfociato nel regicidio.

Tuttavia, accanto alla difesa delle garanzie parlamentari Giolitti serbava la coscienza gelosa e quasi religiosa dei valori dell’Esecutivo, del Governo, affermandone costantemente l’autonomia dalla Corona, che pure lo appoggerà sempre. Come sempre lui sarà fedele al Re, “monarchico per la pelle”, come quando nel 1915, fautore della neutralità mentre Inghilterra e Francia scendono in campo contro Germania ed Austria non esita a schiararsi per l’intervento quando comprende che Vittorio Emanuele III si era impegnato a favore delle potenze dell’Intesa con il Patto di Londra.

 

 

  

Lo scorso 30 giugno, le spoglie di S.A.R. principe Amedeo di Savoia sono giunte da Firenze a Torino, storica capitale dei domini sabaudi dal 1563, quando il duca Emanuele Filiberto “testa di ferro” la preferì a Chambéry, fino al 1865, allorché, conclusosi il tanto atteso progetto unitario, la capitale venne trasferita dapprima a Firenze e poi, definitivamente, a Roma. Giovedì 1° luglio, a un mese esatto dalla scomparsa del Principe, si è celebrata una messa solenne in sua memoria presso la Basilica di Superga, sulla collina torinese alla presenza della Famiglia, delle autorità civili (Regione Piemonte, Consiglio Regionale del Piemonte, Città Metropolitana di Torino, Città di Torino) e di affezionati cittadini. La Basilica, straordinario esempio di architettura barocca del Piemonte di inizio Settecento, opera dell’architetto messinese Filippo Juvarra, era gremita di persone giunte a Superga per porgere l’ultimo saluto al Principe. Il feretro, avvolto nel Tricolore con le insegne sabaude e affiancato dai simboli della monarchia sabauda, quali la Corona Regia e il Collare della Santissima Annunziata, unitamente a quelli di ufficiale della Marina Militare, il cappello e la sciabola d’ordinanza, è stato presidiato dal picchetto della Marina per tutta la durata della liturgia officiata da Monsignor Antonio Vigo, già cappellano della Marina Militare. Il feretro del Principe è poi stato trasferito nel mausoleo di Casa Savoia, la Cripta Reale di Superga, dove ne hanno dato sepoltura le LL.AA.RR. la principessa Silvia, il principe Aimone con la moglie principessa Olga di Grecia e Danimarca e i figli i principi Umberto, Amedeo e Isabella, le principesse Bianca e Mafalda con le rispettive famiglie. Il Presidente dell’Unione Monarchica Italiana, avv. Alessandro Sacchi, ha ricordato come con questo ultimo atto, che rispetta le volontà del defunto Principe, la storia si sia ricongiunta alla storia.

 

Feretro di S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia

Il feretro di S.A.R. il Principe Amedeo di Savoia con alle spalle la Famiglia Reale d'Italia

Il Presidente Nazionale dell'U.M.I., Avv. Alessandro Sacchi, con la moglie, Ing. Daniela Scala 

S.A.R. il Principe Aimone di Savoia Aosta, Duca di Savoia, Capo della Real Casa di Savoia, e dietro il Presidente Nazionale dell'U.M.I.,Avv. Alessandro Sacchi

di Davide Simone, storiografo e consulente di comunicazione

“Il giorno 26 giugno 1975, circa le ore cinque di sera​, nel cominciare il movimento della nave per lasciare il porto, i famigliari chi piangeva e chi gridava adio. Tutta la folla pur grandi vi era, gridava ad alta voce e sventolare bandiere italiane e grida ad alta voce viva l'Italia. La musica suonava, un'altra nave passeggiera eropea alla banchina a fianco che fischiava, anche la Michelangelo che si ritirava. Non posso nascondervi che dalla tanta emozione e nostalgia della madre Italia le lagrimi mi recavano la faccia, e non solo io ma tante patriotte italiane lo stesso hanno pianto di gioia. [...] Il 4 luglio, giorno del mio compleanno, arrivavammo a Napoli Italia. Coe ho detto prima, questo era l'ultimo viaggio della nave icheangelo. Io non so ci l'ha ordinato una grande festa, o il capo della Marina italiana o i capo dela Città di Napoli. Nell'arrivare noi a Napoli abiamo trovato nel porto una folla immenza che aspettava il nostro arrivo. Prima di appoggiare sul porto hanno urnita tutta la nave Michelangelo di bandiere italiane e stelle filande, fornivano per tutti i passagiere dolce , liquore, sigaette e tutto il ben di Dio, le musiche suonavano affesta, tutto il popolo che ci aspettava sulla banchina, tutti con le bandierine in mano che gridava viva l'Itaa. Io nel vedere tuttociò e pensare di essere arrivato a vedere ancora una volta la mia patria dove era stato il mio natale e ancora due fratelli amici e parenti che mi aspettavano, mi sono tanto emozionato che piancevo con le lagrimi agli occhi piene di nostalgia." ("La spartenza"*, Tommaso Bordonaro) In questi passaggi tratti dal suo ormai celebre diario, l'emigrante siciliano Tommaso "Masinu" Bordonaro (Bolognetta, 4 luglio 1909 – Florida, 15 ottobre 2000) racconta l'affetto, suo come di tanti altri emigranti del Mezzogiorno e del resto d'Italia, per la Madrepatria lasciata, e quello dimostrato dai napoletani e dalle autorità cittadine verso il Paese e i connazionali al momento di ricevere i migranti di ritorno. Vera e propria fonte storica "primaria", ed anche per questo di enorme importanza e significato, l'opera di Bordonaro contribuisce a smentire un certo revisionismo dilettantesco d'impronta neo/filo-borbonica, o comunque anti-risorgimentale e anti-nazionale, che vorrebbe i nostri emigranti meridionali, e più in generale i meridionali vissuti nelle prime fasi post-1861, avversi all'Italia come Stato unitario, nostalgici del vecchio regime ispano-borbonico e in una condizione di sudditanza psicologica, con l'Italia percepita come "matrigna".

 

 

*Titolo assai evocativo e di grande portata simbolica. E' un'espressione dialettale che tradotta significa «Il partire, il dividersi l'uno con l'​altro con pena» (Nuovo dizionario siciliano-italiano, di Vincenzo Mortillaro)

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

 

“Gli Azzurri sfidano le corone”, così Corrado Augias su La Repubblica di oggi, si avventura a denigrare le monarchie. Niente più di gossip, ovviamente. Con più di qualche svista, a cominciare dal titolo. Perché gli “azzurri”, come sono chiamati i giocatori della nazionale italiana di calcio, indossano quella maglia, che ha il colore azzurro (o blu) Savoia in onore della Casa regnante quando la squadra fu costituita per la prima volta. Azzurra la maglia degli sportivi, come la sciarpa degli ufficiali delle forze armate. Ho scritto che l’articolo “denigra” non critica le monarchie, Spagna Inghilterra, Danimarca. Perché la critica è sacrosanta, in ogni caso e in ogni contesto. La denigrazione per sua natura sempre generica non porta argomenti al dibattito. Monarchie “un po’ anomale”, scrive il Nostro. E parte dalla Corona inglese della quale rileva “l’evidente declino”. Sono a lui evidente, se è stato sottolineato il ruolo della Regina Elisabetta perfino nel corso della pandemia, che falciava giorno dopo giorno giovani e anziani, quando, in soli quattro minuti, in un intervento televisivo apprezzato dai comunicatori di tutto il mondo, ha mandato un messaggio chiaro ai suoi concittadini ricordando che avevano affrontato, e vinto, ben altre battaglie. Quattro minuti con voce e sguardo fermo per dire parole chiare e definitive. Un discorso efficace, molto più di quelli, lunghi e spesso fumosi, ai quali ci hanno abituato i nostri politici. La Corona inglese che, forse Augias non sa, porta punti al PIL del Regno Unito per il fascino antico e moderno di quel ruolo che è espressione di identità nazionale apprezzata dagli inglesi e da quanti guardano alla loro esperienza nazionale. Quella identità nazionale che un popolo costruisce lungo gli anni, che manca agli italiani ai quali è stato insegnato che l’Italia è nata nel 1946, e pertanto festeggia il 2 giugno, una ricorrenza comunque divisiva, anziché altra occasione come il 17 marzo, data della costituzione dello Stato nazionale (1861), un evento che solitamente si festeggia ovunque nel mondo, siano repubbliche o monarchie. Segue il caso del Regno di Spagna. Augias non può non ricordare che Re Juan Carlos, in presenza di un tentativo di colpo di Stato che aveva trovato eco in vari ambienti delle forze armate, si presentò in TV con l’uniforme di Capitano Generale per ordinare ai suoi soldati di tornare nelle caserme. Poi quel sovrano, certamente benemerito della democrazia spagnola, per aver assicurato la pacifica transizione dal franchismo alle istituzioni liberali, ha dimostrato di non saper invecchiare con la stessa dignità con la quale aveva regnato e, nel rispetto del ruolo al quale era stato educato, ha deposto la corona nelle mani del figlio che la tiene con grande dignità, tra l’altro garantendo con la sua presenza l’unità del paese che l’inadeguatezza delle forze politiche, a Madrid come a Barcellona, ha più volte messo in forse. Infine la Danimarca, che Augias ipocritamente apprezza per “una discrezione spinta al punto che non molti saprebbero dire se sieda su quel trono un re o una regina”. Forse non ha avuto occasione di essere in quel paese per la festa nazionale o del genetliaco del sovrano (oggi della sovrana) quando i danesi si accalcano dinanzi al Palazzo Reale per acclamare e ricordare che in quella istituzione non è solo la loro identità come popolo ma anche un costume democratico nel rispetto delle leggi. Forse Augias non sa che la Danimarca è, secondo la rilevazione di Transparency International sulla percezione della corruzione il paese più virtuoso del mondo. Il primo, cui seguono quelli che progressivamente si discostano di più dalle regole, fino a giungere oltre al 50 esimo posto al Botswana e a Cuba e all’Italia, Repubblica dei partiti e delle camarille. Purtroppo, perché noi amiamo immensamente questo Paese, come i nostri padri ed i nostri nonni, fin da quando gli atleti hanno cominciato ad indossare la maglia azzurra. L’Italia, soprattutto, e sempre. Come ha dimostrato il Principe Amedeo di Savoia Aosta sepolto il 1 luglio a Superga che, da ufficiale della Marina Militare, aveva giurato fedeltà alla Repubblica, perché così autorizzato esplicitamente dal dallo zio, il Re Umberto II. Così si è italiani, caro Augias, per l’Italia non per la fazione.