di Salvatore Sfrecola

(tratto da:www.unsognoitaliano.eu/)

Quest’anno, il 14 marzo, le istituzioni dello Stato avrebbero dovuto ricordare i 200 anni della nascita di Re Vittorio Emanuele II, colui che, per unanime giudizio degli storici, ha svolto un ruolo essenziale nella formazione dello Stato unitario, di quello stato nazionale che da secoli auspicavano le persone di cultura, mentre ovunque in Europa si andavano formando gli stati nazionali, i regni che hanno fatto la storia del Continente. Ovunque la ricorrenza sarebbe stata ricordata con adeguato risalto, magari solo con un francobollo, uno dei tanti che, ogni anno, emette Poste Italiane per ricordare uomini ed eventi. Così sono andato a scorrere l’elenco delle emissioni 2020. C’è di tutto, dalla celebrazione del 70° del Festival di Sanremo al 30° di Telethon, al 110° Carnevale di Point-Saint-Martin, al 100° anniversario della fondazione della Fabbrica Italiana Lapis ed Affini e poi ricordo di Fellini, di Sordi, di Zeno Colò, di Raffaello Sanzio. Ma non un francobollo che ricordasse il Padre della Patria. Non c’era stato neppure nel 2011 quando pure fu emesso un francobollo per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia. È una grave trascuratezza che non fa onore alle istituzioni della Repubblica Italiana. Che abbiano timore di ricordare agli italiani che essendo stati “da secoli calpesti, derisi, perché non siam popolo, perché siam divisi”, come ha scritto Goffredo Mameli nell’Inno nazionale, siamo diventati stato per iniziativa di alcuni uomini di pensiero e d’azione, uno dei quali si chiamava Vittorio Emanuele di Savoia, prima Re di Sardegna, poi d’Italia? È veramente deprimente. Non voglio esprimere giudizi sulla conoscenza della storia e sul senso dello Stato, sulla consapevolezza della identità di questo popolo che manifestano i nostri “statisti”. Ma voglio loro ricordare alcune cose, a cominciare dal 12 marzo 1821.“Chissà che egli, più fortunato di me, non riesca a fare la felicità di questo regno”. Parla Vittorio Emanuele I, Re di Sardegna, che ha appena abdicato in favore del fratello Carlo Felice. Al momento di lasciare Palazzo Reale va a salutare il piccolo principe che porta il suo nome. Ha un anno, essendo nato a Torino il 14 marzo 1820. Lo trova tra le braccia della madre, Maria Teresa di Asburgo Lorena, Principessa di Carignano, lo accarezza e formula quell’augurio. Che si realizzerà. Infatti Vittorio Emanuele, figlio di Carlo Alberto, il re di Sardegna che, come ha scritto Silvio Bertoldi, “tentò di fare l’Italia”, riuscirà nell’intento e il 17 marzo 1861 assumerà “per sé e per i suoi successori il titolo di re d’Italia”. La formula, re “per grazia di Dio e per volontà della nazione” ne fa un “re eletto”, come sottolinea Giovanni Spadolini il quale ricorda che era sua ambizione essere “soprattutto il re degli italiani, nel senso orleanista del termine, il risultato e quasi il simbolo dello sforzo congiunto dell’iniziativa diplomatica e dell’iniziativa rivoluzionaria”. Insomma di Camillo Benso di Cavour e di Giuseppe Garibaldi, uno straordinario statista (per Metternich, in Europa il “solo vero uomo politico”; ed aggiungeva “disgraziatamente è contro di noi”), e un condottiero capace, come nessun altro, di trascinare giovani e vecchi, nobili e borghesi, intellettuali e popolani, provenienti dalle città più importanti e dai borghi più sperduti d’Italia e di guidarli in battaglia. Vittorio Emanuele cercò sempre di rendere compatibili le azioni dell’uno e dell’altro, a volte riuscendoci, convinto che fosse nell’interesse delle comuni aspirazioni nazionali. Consapevole dei suoi doveri, assunse su di sé l’onere di procedere in equilibrio fra il principio di ordine, caro all’aristocrazia piemontese dominata da significative componenti reazionarie, e la rivoluzione nazionale dei giovani liberali che aveva convinto il padre Carlo Alberto a concedere lo Statuto (il 4 marzo 1848), una costituzione liberale i cui principi fondamentali sono stati in gran parte ripresi dalla Costituzione della Repubblica. A 29 anni si trova improvvisamente ad ereditare il trono di un piccolo regno sconfitto dall’Armata del Maresciallo Joseph Radetzky. “Si affida all’istinto, scrive Franco Valsecchi, … E trova nell’intuito, nell’istintivo buon senso un suo scaltro acume che sorprende e sconcerta; sì che gli capita di infilar la via giusta, dove menti ben più acute si smarriscono nella complessità dei problemi”. Così a Vignale, dove incontra il Comandante dell’esercito vincitore, “fiuta la situazione, e con innata scaltrezza ne cava tutto quello che può. Con Radetzky, egli mostra piena coscienza del valore delle carte che ha in mano, ed una indiscutibile abilità nel giocarle. Gioca sullo spauracchio della rivoluzione, sull’interesse austriaco a tenere in piedi la monarchia in Piemonte, sulle incognite e i pericoli di una soluzione di forza. La situazione del paese sconsiglia una aperta reazione; l’abolizione del regime costituzionale provocherebbe uno sconvolgimento. Nel bene inteso interesse della conservazione, conviene procedere con cautela: lo statuto può essere una valvola di sicurezza, può divenire, in chi lo sappia maneggiare, uno strumento d’ordine”. Con questi argomenti riesce a convincere l’anziano soldato, una leggenda nella storia militare austriaca. Ne dà conferma lo stesso Radetzky in un rapporto al suo governo del 26 marzo: “il re … dichiarò apertamente la sua ferma volontà di voler, da parte sua, dominare il partito democratico rivoluzionario… ; e che per far questo gli occorreva soltanto po’ di tempo, e specialmente di non venire screditato all’inizio del suo regno”. Radetzky sa del malessere che serpeggia all’interno del Regno. Genova insorge, i deputati delle sinistre invitano alla resistenza ad oltranza, all’insurrezione armata, alla guerra popolare. La Camera si oppone alla ratifica dell’armistizio. Tanto che il Re deve scioglierla ed intervenire nella campagna elettorale con tutta la sua autorità. Lo fa con il “Proclama di Moncalieri” nel quale critica duramente le posizioni assunte dai parlamentari accusandoli di una sterile opposizione ad una politica “che era la sola possibile” e di aver voluto porre delle condizioni “che distruggevano la reciproca indipendenza dei tre poteri, e violavano così lo statuto del Regno”. Il re intendeva in tal modo “salvare la nazione dalla tirannia dei partiti”. Era l’unico modo possibile per avere la forza di conservare lo Statuto, per consentire al governo piemontese di “mantenersi rappresentante nella penisola della politica sinceramente liberale e costituzionale”, come si legge nella relazione al governo degli inviati sardi Dabormida e Boncompagni alla conferenza sulla pace. Fu l’unico dei sovrani a mantenere lo statuto fra quanti nel 1848 avevano ceduto alle pressioni dei liberali e concesso una costituzione che avrebbero revocato una volta acquisita la protezione delle baionette austriache.Il suo intervento fu giudicato sulle prime una forzatura, ma mantenne le garanzie costituzionali ed aprì alla trasformazione del regime in “parlamentare”. Vittorio Emanuele, re costituzionale, farà tuttavia valere spesso la sua autorità, non di rado entrando in conflitto con Cavour, come al termine della seconda guerra d’indipendenza, nel 1859, quando il Presidente del Consiglio si dimise il 12 luglio in polemica con il Re che invano cercò di dissuadere dall’accettare l’armistizio di Villafranca firmato da Napoleone III con l’Imperatore d’Austria Francesco Giuseppe. Vittorio Emanuele capì che il Piemonte non avrebbe potuto continuare la guerra senza l’alleato francese. Non si ameranno mai, il sovrano ed il suo primo ministro, del quale pure riconosceva le grandi doti di amministratore e di diplomatico. Senza Cavour si disse che il Re “sembrava uno scolaro in vacanza” (Giuseppe Massari). Ma Re Vittorio “si sentiva finalmente – scrive Denis Mack Smith – il vero padrone del paese, un sovrano che non si limitava a regnare ma governava”, “accreditassimo”, come ha sottolineato Giacchino Volpe, nelle Corti europee. Secondo un testimone autorevole e certamente disinteressato, il Conte Karl Friedrich Vitzthum von Eckstädt, Ministro plenipotenziario di Sassonia a Londra: “il creatore dell’Italia non è affatto Cavour, bensì Vittorio Emanuele. Questi univa alla furberia del cacciatore di camosci la maggior bonarietà del mondo, al coraggio del soldato l’acume di un audace uomo di Stato. L’avvenire renderà giustizia a questa personalità misconosciuta dai contemporanei. Cavour, Rattazzi, Ricasoli, Lamarmora o come altro si chiamano, non eran che marionette nelle sue mani. Dei dettagli, non si curava. Lasciava la biancheria sporca da lavare ai suoi ministri. Osservò le forme costituzionali, divenute inevitabili, per servirsene ai propri scopi… Così, personificando il principio nazionale, dominò la situazione… Sacrificò sua figlia e la culla della sua casa, ma tenne al battesimo per sé e per il figlio la nuova Italia, a dispetto del Papa e dell’imperatore”. Meno popolare di Garibaldi, che, pur repubblicano, gli fu sempre fedele riconoscendogli il ruolo di federatore dei patrioti, e per il quale conquistò il Regno dei Borbone al motto di “Italia e Vittorio Emanuele”, il re piaceva agli italiani, coraggioso, spavaldo, bravo cacciatore, ottimo cavallerizzo, un po’ donnaiolo, ma attento alla famiglia ed alla religione. A lui si rivolge Giuseppe Mazzini: “Io, repubblicano, e presto a tornare a morire in esilio per serbare intatta fino al sepolcro la fede della mia giovinezza, sclamerò nondimeno coi miei fratelli di patria: preside o re, Dio benedica voi come alla nazione per la quale osaste e vinceste”. Alla notizia della sua morte, il 9 gennaio 1878, la Regina Vittoria d’Inghilterra, che lo aveva ospitato a Londra tra il 30 novembre e il 6 dicembre 1855, tra incontri ufficiali, colazioni e cene “in famiglia”, lo ricorda con sincero affetto: “quando lo si conosce bene, non si può fare a meno di amarlo. Egli è così franco, aperto, retto, giusto, liberale e tollerante e ha molto buon senso profondo. Non manca mai alla sua parola e si può fare assegnamento su di lui”. Una figura solida, dunque, Re Vittorio, un simbolo di quel “miracolo del Risorgimento”, come titola un bel libro di Domenico Fisichella, che, senza enfasi ma con realismo, ha realizzato lo stato nazionale “costruito – come scrive Spadolini – attraverso la libertà, non frutto di conquista, non opera di violenza, ma espressione di un grande moto popolare disciplinato dalla legalità e, diciamolo pure, dalla legalità democratica” .In lui si identificarono, da Nord a Sud, liberali e conservatori. Massimo D’Azeglio lo definì “Re galantuomo”. Gli italiani che hanno memoria del Risorgimento lo ricordano come il Padre della Patria.

di Salvatore Sfrecola

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Santa Sofia, basilica cristiana, completata a Costantinopoli con straordinario impegno dall’Imperatore Giustiniano, che, una volta terminati i lavori, esclamò: “Salomone, ti ho superato!” (Νενίκηκά σε Σολομών). Poi moschea, poi museo e ancora moschea dal 10 luglio 2020. Ἁγία Σοφία, dedicata alla Sophia, La sapienza di Dio, dal 537 al 1453 fu cattedrale cattolica di rito bizantino, sede del Patriarcato di Costantinopoli, poi ortodossa. Divenne moschea ottomana il 29 maggio 1453 a seguito della conquista di Costantinopoli da parte di Maometto II, saccheggiata selvaggiamente con distruzione di molti edifici sacri e imperiali, compresa la Basilica alla ricerca di ricchezze che non fossero le straordinarie decorazioni. Rimase moschea fino al 1931 quando fu sconsacrata per divenire dal 1° febbraio 1935 un museo per iniziativa del primo Presidente della repubblica turca dopo la fine dell’Impero Ottomano, Mustafa Kemal Atatürk, una scelta che l’attuale Presidente Recep Tayyip Erdogăn riteneva da tempo fosse stato “un errore molto grande”. Nel 2006, dopo la prima visita di Papa Benedetto XVI, il governo turco decise di destinare una piccola stanza del complesso museale a luogo di preghiera per tutte le religioni, decisione subito contrastata dalle associazioni islamiche e da membri del governo turco i quali chiedevano che l’edificio fosse dedicato esclusivamente al culto islamico. Dal 2013, dai minareti il muezzin canta l’invito alla preghiera due volte al giorno, nel pomeriggio. Torna, dunque, moschea per decreto del 10 luglio 2020 emanato dal Presidente Erdogăn che il successivo 24 luglio ha partecipato alla prima preghiera pubblica islamica. Già il 31 marzo 2018 Erdogăn aveva recitato il primo versetto del Corano nella Basilica di Santa Sofia, dedicandola a “coloro che hanno contribuito a costruirla ma in modo particolare a chi la ha conquistata”. Queste parole danno dimostrazione dello spirito che anima il mondo islamico, da sempre intollerante nei confronti dei vari culti al punto che anche i cittadini non di religione islamica sono spesso discriminati all’interno degli ordinamenti statali. È, dunque, fuori luogo il dolore di molti cristiani, compreso Papa Francesco. Credo che sia un errore di valutazione storico politica. La basilica era diventata moschea a seguito della conquista di Costantinopoli. In quella data la Cristianità ha perduto quello straordinario luogo di culto. Un gesto di intolleranza religiosa che è una costante nel mondo islamico sicché, anche laddove sopravvivono vecchi luoghi di culto le comunità soffrono per le restrizioni cui i sacerdoti ed i fedeli sono sottoposti. Quindi non c’è niente di nuovo. Il commento della vicenda del ritorno di Santa Sofia al ruolo di moschea più che suscitare dolore deve portare alla consapevolezza che gli islamici sono intolleranti e aggressivi in quanto la religione permea di sé anche la vita civile di quelle comunità. È questo che va tenuto presente quando apriamo le porte agli islamici. La regola della civiltà è la tolleranza e la reciprocità. Se tu non mi consenti di costruire una chiesa nello stato di provenienza, io non ti consento di costruire una moschea qui da noi. È chiaro che la politica non si fa influenzare dalle istanze religiose, ma la considerazione della diversa mentalità di queste popolazioni chiarisce una cosa in modo inequivocabile, che non si possono integrare in una comunità la quale da sempre, dai tempi dell’antica Roma, è stata sempre aperta nei confronti dei culti qualunque realtà culturale esprimessero. Lo tengano bene a mente i fautori dello ius culturae. Non basta studiare in una scuola italiana per dirsi “italiani a tutti gli effetti”, come ama ripetere Marco Damilano. Le ragazze islamiche di una scuola italiana che non si sono alzate in piedi per commemorare le loro coetanee morte nell’attentato al Bataclan dimostrano che l’integrazione comporta un idem sentire di valori che la civiltà cristiana, sulle orme della romanità, ha sparso a piene mani nel mondo occidentale. Chi non condivide è solamente un ospite. E chi non vede queste differenze è politicamente miope.

di Salvatore Sfrecola

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“In rivolta la Corte dei conti” scrive Luigi Bisignani su “Il Tempo”, nel dar conto di alcune polemiche sorte a seguito della “rosa” (la terna) con la quale il Consiglio di Presidenza della Corte dei conti, l’Organo di autogoverno della Magistratura contabile, nell’ultima seduta prima delle ferie (il 29 luglio) ha risposto alla richiesta della Presidenza del Consiglio che la chiedeva ai fini della nomina, che spetta al Governo, del nuovo Presidente della Corte dei conti in sostituzione di Angelo Buscema, eletto Giudice della Corte costituzionale. Non parlerò dei candidati e di quelli che sono rimasti fuori della “rosa” e che, con varie motivazioni, sono insoddisfatti e protestano, come l’Associazione Magistrati che ha indirizzato le sue doglianze al Presidente della Repubblica ed al Presidente del Consiglio. Non ne scrivo perché conosco e stimo tutti gli interessati alla complessa vicenda, miei colleghi negli anni nei quali ho svolto funzioni di magistrato della Corte. Non ne scrivo anche perché sono stato, per due volte, Presidente dell’Associazione Magistrati nel periodo più difficile, quando abbiamo dovuto chiedere al potere politico che il Presidente della Corte fosse scelto tra i magistrati contabili, dopo il pensionamento di Giuseppe Carbone, magistrato del Consiglio di Stato messo a capo del giudici contabili non essendo stato confermato da Francesco Cossiga nel ruolo di Consigliere giuridico che aveva ricoperto con Sandro Pertini al Quirinale. Ottenemmo che il Presidente della Corte fosse scelto al nostro interno. Lo avevamo chiesto al Presidente del Consiglio Romano Prodi. Il Vicepresidente, Sergio Mattarella, all’ingresso in Consiglio dei ministri, mi anticipò la proposta di nomina di Francesco Sernia. Poi venne la legge, che l’Associazione aveva suggerito all’On. Franco Frattini, all’epoca parlamentare di Forza Italia, che ricalcava quella già esistente per il Consiglio di Stato. E così, di Presidente in Presidente la nomina è stata decisa dal Consiglio dei ministri, “sentito il Consiglio di Presidenza”. Era evidente il carattere consultivo del ruolo dell’Organo di autogoverno, ma fu sempre intesa come una “designazione”. Palazzo Chigi chiedeva un nome e i Consigli di Presidenza della Corte e del Consiglio di Stato rispondevano con una indicazione secca. Poi venne Giuliano Amato che, da Presidente del Consiglio, anticipò al Presidente anziano facente funzioni, Vincenzo Bisogno, che avrebbe proposto al Consiglio dei ministri la nomina di Francesco Staderini. Il Consiglio di Presidenza accettò lo scavalcamento di altri Presidenti di sezione. Infine è passata l’ipotesi della “rosa” divenuta cinquina per il Consiglio di Stato. E fu Alessandro Pajno. Non faccio questione di nomi, ovviamente. Per la Corte dei conti parliamo di magistrati al vertice della carriera spesso con variegate esperienze, nel controllo e nella giurisdizione. In altra occasione mi soffermerò sulla formazione del ruolo e sulla progressione nella carriera. Ma è questione de futuro. Chiudo con una considerazione che ritengo importante. Sostiene Bisignani a proposito di Aldo Carosi, Presidente di Sezione, attualmente Vicepresidente della Corte costituzionale che lascerà a breve, e pertanto si è fatto il suo nome come Presidente della Corte dei conti, che egli “ritiene che la Corte debba diventare un’autorità di controllo, senza alcuna funzione giurisdizionale”. Può darsi che sia stato distratto e non mi sia accorto che Carosi ritiene questo. Magistrato che stimo moltissimo, che ho concorso con il mio gruppo associativo all’elezione quale giudice costituzionale nel ballottaggio nel quale era concorrente di Eugenio Francesco Schlitzer, ha una grande esperienza nel controllo che, alla Consulta, ha valorizzato molto riconoscendo il ruolo e la funzione dei bilanci pubblici in rapporto al diritto dei cittadini. Ma questo non esclude – e non credo lo escluda Carosi – il ruolo della giurisdizione, la quale nasce nei secoli passati come espressione di un controllo di legittimità sui conti, un ruolo che la Corte in molte realtà ha trascurato e che dovrà riprendere con decisione anche a seguito della soppressione della “colpa grave” come requisito minimo per l’affermazione della responsabilità per danno erariale. Una scelta che dimostra quanta ignoranza e quanto pressappochismo guidi le scelte di Palazzo Chigi che sembra abbia tratto spunto da inchieste e sentenze non gradite che avrebbero indotto il timore della firma in alcuni funzionari pubblici, trascurando che si tratta evidentemente di incapaci. È il senso dello Stato che alberga in questo governo ed in questa maggioranza? Forse che è mancato coordinamento all’interno della Corte? Ed è questa la risposta? Comunque la giurisdizione contabile non si tocca, non solo perché sta scritta in Costituzione all’art. 103, comma 2, ma perché è funzionale ad una corretta gestione del pubblico denaro. E comunque alla Corte ci sono magistrati perché alcuni indossano la toga.