di Giuseppe Basini

( Tratto dal volume "Prospettive dell'Italia 2020" della Fondazione Fare Futuro)

L'inizio di un nuovo secolo é un naturale periodo di bilanci anche per le nazioni e oggi siamo all'inizio di un secolo che segna un millennio, un periodo che sembra enorme rispetto alla nostra vita, ma che non lo é per la nostra Nazione. Perché siamo, a riflettere storicamente, la più antica nazione d'Europa . Fin da ben prima che cominciassimo a contare gli anni secondo il calendario cristiano, l'Italia già esisteva come provincia, come realtà culturale e come coscienza di sé, la cultura latina era condivisa in tutta la penisola e anzi l'intera Italia, con Catullo che nasceva a Verona, Plinio a Como, Virgilio a Mantova, Tito Livio a Padova, era ormai tutta protagonista della cultura Latina, tanto che Virgilio dedicava all'Italia un' ode nelle Georgiche e nell'Eneide chiamava Italia il luogo in cui i Troiani finalmente sbarcavano. E non a caso Dante a Virgilio si è richiamato.  Nazione lo siamo insomma da sempre e da sempre, di fatto, ai primi posti della civilizzazione mondiale. E’ difficile infatti trovare una civilizzazione che sia durata così continuativamente sulla scena mondiale come quella Italiana, dal diritto e dalla poesia della Roma Repubblicana all'urbanistica e all'architettura della Roma Imperiale, dalle cattedrali del Medioevo alla nuova cultura del rinascimento, dal metodo sperimentale di Galileo che segna la nascita della scienza moderna, alla scoperta dell'America che segna la nascita dell'era moderna e che fu consapevolmente ricordata nel messaggio del premio Nobel Compton, quando, grazie a Fermi e alla sua Pila Atomica, si aprì l'epoca nucleare : " Il navigatore Italiano é giunto nel Nuovo Mondo " . Faccio questo orgoglioso bilancio del mio Paese, all'inizio del nuovo millennio, per un preciso motivo, per richiamarne le energie, scientifiche, culturali e morali al servizio di una situazione mondiale che appare dal futuro drammaticamente incerto. Noi Italiani non sempre ce ne rendiamo conto, ma su scala storica stiamo vivendo un periodo di tranquillità, di benessere e anche di stabilità reale (sotto la grande instabilità politica) eccezionale in rapporto al resto del mondo ed anche in rapporto a quei non molti paesi che sono più ricchi di noi, per effetto del progresso economico, certo, ma anche di una antica tradizione, di una profonda solidarietà e soprattutto di una certa virtù di vivere, grazie alla quale pure la povertà è vissuta in maniera meno dura e più dignitosa da noi ( da ricco potrei vivere bene, a parte gli affetti, in qualunque parte del mondo occidentale, ma da povero, anche col nostro pessimo e mal governato stato, senza dubbio sceglierei l'Italia ). Ma nel resto del mondo non è affatto così e, soprattutto, quello che preoccupa è la rapida tendenza al peggio che è dato vedere (e questo anche da noi). E’ come se la Terra si fosse ripiegata su se stessa, con l'intero terzo mondo che sembra solo preoccupato di ripetere -in peggio- gli stessi errori da noi già fatti, mentre le grandi nazioni ricche di potenzialità hanno smesso di progettare il futuro. Come la Russia del ripiegamento economico e demografico, che, insieme alla tragica e sanguinosa prassi dittatoriale del comunismo, sembra aver perso però anche la religione laica del progresso, come gli Stati Uniti, che, a parte i due grandi sprazzi delle presidenze di Kennedy e Reagan, sono adagiati su di una mediocrità politically correct che sembra figlia della "noluntas" verde-radical chic. Come L'Europa, che, per colpa del direttorio di Francia e Germania, continua a non essere tale e, perciò stesso, a non poter sostituire e neanche affiancare il motore Americano. Certo, Trump, Putin e i federalisti europei sembrano voler arrestare questa tendenza, ma non mostrano realmente una visione del futuro sufficiente ad invertire la rotta e la Cina vuole solo diventare una grande potenza economica e militare e non mette certo libertà e democrazia tra i suoi primi valori. Complessivamente insomma si delinea lo scenario di un mondo bloccato, senza nessuna spinta nemmeno lontanamente paragonabile a quella sprigionatasi nel rinascimento o nell'ottocento, ma soprattutto nemmeno lontanamente paragonabile a quella che oggi sarebbe necessaria. Perché non ci sarebbe nulla di troppo negativo in questo periodo che, ribadisco, contrariamente a quello che molti credono é di ripiegamento, se non fosse che l'essere sul punto di raggiungere i limiti dello sviluppo sul nostro pianeta, introduce un rischio gravissimo di crollo esplosivo, definibile, a mio avviso, da un'equazione del tipo : mancato sviluppo = catastrofe = guerra e allora la vita ragionevolmente piacevole che in Italia riusciamo ancora a fare, potrebbe non durare a lungo, in un'epoca in cui non é più possibile ignorare i problemi mondiali, perché si finisce comunque per ritrovarseli addosso. E questo dal terrorismo alle guerre sante, dal grande fratello ai virus.  E allora é alla lunga tradizione di capacità storico-diplomatica di una nazione come la nostra, che bisogna attingere, per rimettere in moto, prima il processo di integrazione europea, poi quello di solidarietà atlantico-occidentale e infine quello di ricostruzione continentale comprendente anche la Russia, con l'obbiettivo di un gigantesco sforzo Euro-Americano per rimettere in moto ricerca scientifica e sviluppo tecnologico, rivolti finalmente di nuovo all’espansione reale e non solo alla gestione elettronica e inquisitrice di una mediocrità virtuale e illusoria.  E questo a favore di tutto il Mondo. L'Italia, che é stata tra i primi a raggiungere la consapevolezza dell'impossibilità di risolvere problemi globali sulla base di una spinta puramente nazionale e che proprio per questo é ancora e nonostante tutto, una nazione europeista, deve porre le risorse di un'antichissima scuola diplomatica ( e il pensiero corre a Cavour ) a cui non è estranea la tradizione del papato, al servizio di una nuova grande iniziativa, nel solco della tradizione e dello spirito occidentale . I problemi interni del nostro paese sono ben poca cosa rispetto a quelli del mondo (e lo dimostra il fatto che possiamo baloccarci, come facciamo, con mille astruserie barocche, dal localismo, alle strane authorities, fino alle formule politiche a "geometria variabile", senza – finora - danni irreparabili) e non solo se riferiti al mondo in generale, ma proprio anche agli effetti diretti che producono sul nostro paese, visto che i cambiamenti che importiamo in Italia per i sommovimenti mondiali (dalla stagnazione all'effetto serra, dal ciclo economico all'immigrazione selvaggia, dalle ragioni di scambio alle tecnologie condizionanti) tendono a diventare sempre più importanti rispetto a quelli di origine interna. Insomma stiamo passando da un lunghissimo periodo storico in cui, molto spesso, la politica estera era un prolungamento di quella interna, ad un nuovo periodo in cui è quella interna ad essere determinata da quella estera. Se non riusciremo a risvegliare l'antico spirito pionieristico occidentale in una, massimo due, generazioni, la partita per il mondo sarà perduta e con essa anche quella per il nostro Paese. Ho in testa qualcosa di preciso dicendo questo, qualcosa che deriva dalla constatazione che é impossibile, senza perdere insieme benessere, libertà e pace, accettare i limiti dello sviluppo. Intendendo con questo che é mia opinione che, senza la pianificazione urgente di una prima ondata di colonizzazione dello spazio vicino, l'umanità entro questo o il prossimo secolo, conoscerà una discontinuità (catastrofica) prima di riprendere il cammino, ma da un livello molto più basso. L'orgoglio che provo e che ho sempre provato (e che prima di me provava mio padre) di essere italiano, mi spinge a credere che un’ Italia indipendente saprà e potrà risvegliare la scintilla di un nuovo Rinascimento scientifico ed umanistico che apra la strada alla conquista dello Spazio vicino, allo stesso modo che fu nei nostri monasteri e nelle nostre accademie che si determinò il primo. Ad ogni modo che sia l'America a riprendere quello spirito di avventura che oggi sembra appannato, l'Europa o chiunque altro, noi dovremo dare il nostro contributo, meglio se tra i primi. E non ci tragga in inganno la sproporzione numerica, anche Firenze, anche Venezia, erano piccola cosa all'alba del Rinascimento, eppure, dalla letteratura, alla scienza, alla finanza, cambiarono il mondo. La possibilità di comprensione e di guida dei nuovi avvenimenti, se ci sarà, non nascerà da grandi masse o da moltitudini urlanti, ma dalle università e dai chiostri. Oggi che l'Italia, pur possedendo le chiavi di lettura di ogni singolo progresso scientifico, non è percepita da nessuna parte del mondo come potenza aggressiva o egemone, la possibilità concreta di influenzare l'atteggiamento delle altre nazioni potrebbe essere notevole, purchè si sappia cosa volere, dove andare e come . Potrebbe essere un'altro millennio di fondamentale presenza della cultura e dello spirito italiano . La Spagna della regina Isabella sappiamo dov'è oggi, a Bruxelles, a Mosca, a Pechino e al di là dell'Atlantico, ci servono però altri "navigatori italiani" per noi e per tutti gli altri. Al nostro interno, il principio della libertà trova, nella realtà italiana di inizio secolo, uno dei luoghi che maggiormente necessitano di una rivoluzione liberale e di una politica che sia conseguente . La riscoperta di libertà e tradizione è necessaria quanto mai nel nostro paese, per procedere verso un futuro che sia umano, di progresso e iscritto in un progetto comune. Lo spirito illuminista e risorgimentale, la cultura liberale, l'assunzione consapevole di tutta la storia Italiana ( dalla tradizione monarchica, ai nazionalisti, al sentimento cattolico) l'ottimismo nel futuro, la visione occidentale, l'Europa, sono tutti tasselli che devono trovare armonico posto nella visione di insieme di uno sviluppo di società nazionale, coerente con la storia e compatibile con le necessità e l'ambiente, che proponiamo all'Italia. E allora in Italia tutte le forze tradizionaliste devono riconoscersi per quello che sono, nei fatti, nelle aspettative e nel solco della grande tradizione della Destra Storica : il movimento Italiano per la Libertà (politica ed economica) e la Nazione. Libertà e Nazione, perchè è tradizionale il riconoscimento del valore della libertà della persona e contemporaneamente del suo radicamento in una comunità che è quella nazionale. E questa la base di un modo di pensare chiaro, patriottico, democratico ed Europeo, su cui chiamare a raccolta i cittadini, spronarli ed indicar loro la strada del recupero della libertà e della tradizione nazionale. E dello stato di diritto, che, dall’abbandono del giusnaturalismo in poi, non ha fatto che regredire e oggi (e purtroppo soprattutto in Italia) sembra soccombere di fronte ad una magistratura tendenzialmente autoreferenziale che, associata al populismo antipolitico, al posto della democrazia sembra quasi volersi rifare a un potere sapienziale assoluto premoderno, come fondamento di uno stato di polizia dotato di modernissimi strumenti tecnici.  E' una linea occidentale, quella che proponiamo, ma tutta dentro la tradizione italiana, una linea di Destra Storica che, entrati nell’era moderna con l’illuminismo e gli empiristi inglesi, prende forza con Carlo Alberto e Re Vittorio, Cavour e Sella, continua con Mosca e Pareto, Salandra e Sonnino, passa per Einaudi e Croce, fino a toccare De Gasperi e Pio XII, Malagodi e Pella, Sogno e Tatarella, Maranini e Martino, una linea sottile, ma che, quando ha prevalso, ha fatto la fortuna d'Italia. E' una linea rigorosamente garantista, perchè la democrazia non è una parola e una giustizia democratica non è tale, se i diritti del cittadino vengono calpestati in nome di un giustizialismo che faccia di giudici intoccabili dei poteri insindacabili. E’ una linea che considera libertà personale e democrazia beni essenziali da difendere e tutelare in ogni circostanza, anche in presenza di una pandemia, per evitare che possa realizzarsi, sotto mentite spoglie,. una via sanitaria alla tirannia. E’ una linea che vede nella rigorosa difesa e diffusione della proprietà privata la prima base dell’essere davvero libero cittadino.  E' una linea che ci vuole in Europa da Italiani orgogliosi di esserlo, condizione necessaria per essere veramente europei. E’ una linea volta a costruire un futuro che non dimentichi la storia della nostra civilizzazione.

                                                                                                        

di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unsognoitaliano.eu )

Ho votato NO, come è noto ai lettori di questo giornale ed a quanti hanno seguito su Facebook i miei post. Ha vinto il SI, come era largamente prevedibile, in ragione del fatto che il messaggio, secondo il quale la riduzione dei parlamentari avrebbe assicurato un risparmio, è parso subito ai più condivisibile. Sorretto da potenti mezzi pubblicitari, a cominciare dalla presenza televisiva continua degli esponenti del Si come Di Maio, l’idea che meno deputati e meno senatori alleggeriscano i bilanci delle Camere è sembrata l’occasione giusta per “dare una lezione” alla “casta”, la classe politica dipinta da una diffusa vulgata come un’accolita di persone dedite ad arricchirsi, nullafacenti e incompetenti, come si legge sui social. Trascurando che, se non cambiano le regole che guidano la scelta dei candidati, ed in assenza della possibilità per gli elettori di individuare chi ritengono meritevole di rappresentarli, se i partiti continuano a scegliere fannulloni e incompetenti il risultato del referendum popolare avrà semplicemente ridotto fannulloni incompetenti, senza migliorare l’efficienza delle Camere, ciò che, in fin dei conti, vogliono gli italiani. E così, a fronte di una adesione parlamentare alla riforma quasi plebiscitaria, condivisa da alcuni partiti, perché chiaramente timorosi di non apparire quelli che non vogliono risparmiare e difendono le poltrone, il 30% dei NO è un risultato notevole. E già emergono sui giornali i problemi che la riforma comporta come, ad esempio, la revisione dei collegi elettorali che diventeranno naturalmente enormi (al Senato ci sarà un eletto ogni 302.420 abitanti, contro gli attuali 188,424; alla Camera uno ogni 151,220 contro gli attuali 96.006). Per non ripetere, come si è costantemente detto nel corso della campagna referendaria, degli effetti del taglio lineare (percentualmente uguale per tutte le regioni) che danneggia alcune realtà (Basilicata ed Umbria perdono il 57,1% dei propri rappresentanti) che non è aspetto di poco conto in un Paese molto variegato sul piano culturale, economico, ambientale e turistico come l’Italia, in presenza di una classe politica, che non vuole assolutamente, come è stato dimostrato nel tempo, restituire al cittadino la scelta del parlamentare che lo rappresenterà, per mantenere quella che sostanzialmente è una forma di cooptazione ignota alle democrazie rappresentative. Oggi chi vota sceglie un partito, una lista e con il suo voto assicura l’elezione, in relazione al numero dei seggi attribuiti alla lista, a coloro che sono stati collocati nella posizione utile da parte delle Segreterie dei partiti. Infatti, si dice che i parlamentari italiani sono nominati e non eletti. Ed è per questo che ho costantemente fatto riferimento all’esigenza di procedere, prima del taglio dei parlamentari, o anche contestualmente al taglio dei parlamentari, ad una riforma della legge elettorale che a mio avviso dovrebbe essere maggioritaria basata su collegi uninominali. Ma già oggi si sente dire da Di Maio, che gongola per il successo facile della lotta alla casta ottenuto sollecitando più la pancia che la testa dei cittadini, che infatti votano SI ma abbandonano il Movimento 5 stelle, che si dovrà fare una legge proporzionale. L’unica che favorisce la creazione di piccoli gruppi perché, se lo sbarramento non è elevato, come in Germania dove è stabilito al 5%, anche un partitino come Italia Viva di Matteo Renzi, che lotta per giungere al 3%, può avere il suo spazio e una capacità di interdizione rispetto ad iniziative politiche ed a scelte parlamentari. Alla faccia della governabilità-Quindi la vittoria del SI è una vittoria di Pirro se non accompagnata da una riforma elettorale che restituisca il diritto di scelta ai cittadini, che ridimensioni il potere delle Segreterie dei partiti. Abbiamo detto più volte, e lo ripeto in questa occasione, che questa legislatura è condizionata dall’elezione del Presidente della Repubblica perché dal 2018, cioè da quando si è aperta, tutto appare finalizzato a questo obiettivo, dei partiti, naturalmente, e dello stesso Presidente, perché è umano che il Presidente ambisca essere rieletto e che agisca in conseguenza per mantenere il consenso dei partiti che lo hanno nel 2015 lo hanno portato al Quirinale. Non è questa la democrazia rappresentativa nella quale crediamo. Ed allora ecco che si affacciano nel dibattito politico proposte, come il passaggio alla Repubblica presidenziale, che alcuni leaders politici ripetono senza sapere bene di cosa si tratta. Certamente nella speranza che il Presidente sia della propria parte. Per alcuni l’Uomo della Provvidenza, purché sia della parte giusta perché altrimenti sono guai. Basta pensare a quanto avviene oggi quando il Presidente eletto dal Parlamento non appare un arbitro imparziale. È stato sempre così, con esclusione della presidenza di Luigi Einaudi, una personalità di cultura liberale, un grande economista, un accorto uomo di Stato il quale non rispondeva neanche al suo partito ed aveva il senso della estraneità del Presidente agli interessi di parte, in ragione anche della sua cultura risorgimentale e monarchica, tant’è vero che alla vigilia del referendum del 1946 aveva scritto in favore della scelta monarchica. Così identificando nel Capo dello Stato una figura di arbitro realmente imparziale.

ETEROGENESI DEI FINI

di Giuseppe Borgioli

È una espressione che viene dalla filosofia di Hegel e che a scuola mi ha fatto sudare le fatidiche sette camicie.  Il significato è semplice e facile da ridurre alla esperienza quotidiana della storia e della cronaca.  Molti eventi non sono compresi dai fini che ci proponiamo con le nostre azioni e i nostri disegni.  La storia progredisce proprio non totalmente racchiusa dalle nostre previsioni. Facciamo un esempio concreto. Abbiamo votato per il taglio dei parlamentari. Sappiamo il risultato ufficiale del referendum ma non sappiamo e forse non sapremo mai il dato dell’affluenza alle urne soprattutto nelle regioni non interessate dal voto amministrativo che ha esercitato la funzione di traino per la partecipazione (bassa) degli elettori. Sulle ragioni del no molti hanno scritto con argomenti che facevano appello alla dottrina più che ai risentimenti. Prendiamo atto che il referendum è passato, non è il primo che perdiamo, brogli a parte. Non ci sfugge la genesi tutta politica (demagogica) del quesito che è stato sottoposto agli elettori. Ecco che spunta l’eterogenesi dei fini. I risultati si vendicano delle nostre intenzioni. Ora il Parlamento dovrà legiferare sulla nuova legge elettorale. Ciascuno tirerà fuori dal taschino un testo secondo le convenienze del proprio gruppo politico. Nel contrasto degli interessi c’è caso che esca una legge elettorale particolarmente punitiva di quelli che presumevano di trarne vantaggio. Ancora l’eterogenesi dei fini. Le leggi elettorali andrebbero concepite in un clima di unità nazionale perché prevalesse l’interesse generale. Così consigliano i politologi che hanno prodotto una vasta letteratura sull’argomento. Ci sono dei principi empirici sui quali nessuna persona seria discute.  Il sistema proporzionale andava bene nella prima repubblica quando la spaccatura politica era netta o almeno era tale sul proscenio, ad uso e consumo del pubblico. Oggi la tendenza è di garantire la governabilità e di far sì che all’indomani del risultato elettorale si conosca già il nome del vincitore e del vinto. Sistemi elettorali diversi ispirati a principi diversi. Nel corso della storia dell’Italia Unita, Casa Savoia ha fatto ricorso alternativamente a questi sistemi che conservano la loro legittimità. L’importante è tener fermo il concetto che quando si scrivono le regole bisogna coinvolgere tutti o non escludere a priori nessuno. Altrimenti succede che come si giocava da ragazzi e c’era sempre qualcuno prepotente che voleva decidere per gli altri. Ve lo ricordate?  “il pallone è mio e comando io”. La risposta era pronta con la prontezza che hanno i ragazzi. “Se il pallone è tuo, gioca da solo”.

di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu

Gli anziani sono un po’ come i bambini, vogliono essere al centro dell’attenzione, i bimbi, perché così si fanno notare dai grandi che cercano di imitare, gli anziani perché non vogliono uscire di scena. E rilanciano, non mollano alla ricerca di un nuovo ruolo. L’ho visto centinaia di volte. Un’abitudine diffusa tra gli alti gradi delle amministrazioni civili e militari i quali, in vista del pensionamento, instaurano rapporti con enti ed imprese che forniscono lo Stato e delle quali spesso, dopo, diventano consulenti quando non amministratori. Un tempo, ad esempio, era frequente che alti ufficiali delle Forze Armate in pensione divenissero consulenti delle imprese che producono armamenti per Esercito, Marina e Aeronautica. La cosa aveva una logica: sono stati gli utenti e conoscono le esigenze delle amministrazioni, così possono indirizzare le produzioni verso quegli obiettivi. A volte, però, il fatto che questi personaggi, usciti dall’ amministrazione siano passati nelle imprese fornitrici di beni e servizi, ha ingenerato il dubbio che, già in servizio, avessero agevolato quelle imprese per precostituirsi, poi, una comoda sistemazione da pensionati. Indubbiamente si pone quantomeno un problema di conflitto di interessi o una evidente inopportunità. Come per quanti, usciti dalle Amministrazioni, li ritrovi a stretto giro in studi legali dei quali poco prima giudicavano ricorsi e appelli. Che vi fosse un’entente cordiale anche prima?. Il dubbio resta. Anche i magistrati, soprattutto quando hanno calcato la scena per molto tempo, non sono disponibili, una volta pensionati, a dedicarsi a tempo pieno a figli e nipoti e magari a scrivere le loro memorie ed a coltivare gli studi giuridici. E così sulla soglia degli 80 anni cercano di far fruttare la loro notorietà in un ambiente da sempre sensibile, quello dei partiti che hanno costantemente guardato alla magistratura, soprattutto ai procuratori, con particolare interesse. Rimane sempre, nella gente semplice, ma che ha la sensibilità giusta per queste cose, il dubbio se, quando rivestivano la toga, abbiano forzato l’applicazione della legge, alla quale i magistrati sono soggetti ai sensi dell’articolo 101 della Costituzione, agli interessi del partito nel quale poi sarebbero andati a fare politica. Se così fosse sarebbe gravissimo e vorrebbe dire che quei magistrati hanno tradito il loro ruolo. Le ferrovie non hanno unificato l’Italia, com’era ambizione di Camillo Benso Conte di Cavour, entusiasta di questo nuovo mezzo di trasporto di cose e di persone. L’aveva sperimentato in Inghilterra ed aveva immaginato, tornato in Italia, che con i treni l’economia agricola del Sud avrebbe conquistato i mercati del Nord e dell’Europa. E che il treno avrebbe facilitato il turismo della buona salute, portando in giro per l’Italia, a godere del nostro straordinario clima, quanti vivevano nelle regioni brumose del Nord Europa. Ma anche il turismo dell’arte, della quale l’Italia è una straordinaria espressione. Infine, per Cavour le ferrovie avrebbero convogliato merci sui porti di Palermo e Napoli e l’Italia sarebbe divenuta la porta dell’Europa sull’Oriente e la Cina. Queste cose le scriveva nel 1846 (occhio alla data! L’Italia era ancora formata da 7 stati) con grande lungimiranza. Ma poco è stato fatto, soprattutto in quelle regioni la cui economia Cavour voleva sviluppare. E infatti, se Cristo si è fermato ad Eboli, l’alta velocità non va oltre Salerno. E nelle isole, straordinario volano del turismo, e non solo, l’alta velocità è ancora sconosciuta. Riusciranno i nostri eroi (Conte, Di Maio e compagni) a costruire ferrovie là dove Cavour aveva immaginato che fosse necessario per lo sviluppo del Paese? Mattarella si è accorto che Conte ha bruciato la sua candidatura ad un secondo mandato presidenziale solo facendo l’ipotesi. E si è innervosito, secondo quel che scrivono i giornali. Perché aveva certamente fatto conto fin dal 2018, quando si è aperta una legislatura che ha considerato ogni suo momento condizionato alla nomina del Presidente della Repubblica nel 2022. E va detto che, in vista di quella scadenza, molti hanno lavorato per ottenere il risultato desiderato. Anche il Presidente non è sembrato sempre arbitro imparziale ma uomo di parte, dalla parte di coloro che lo avevano eletto. La qual cosa è nella natura del Presidente, eletto dai partiti fra uomini che nei partiti hanno avuto un ruolo significativo, diranno i monarchici. Fedele al suo impegno culturale che, di anno in anno, ci consegna volumi sempre di estremo interesse per riflettere sulla politica, Domenico Fisichella, Professore ordinario di Dottrina dello Stato e di Scienza della Politica, senatore, ministro per i beni culturali e ambientali, editorialista per decenni di importanti quotidiani (Nazione, Tempo, Sole24Ore, Messaggero) torna in libreria con Figure e percorsi della Politica (edito da Pagine, pp. 259, € 18,00), nell’ambito della “Biblioteca di Storia e Cultura” da lui stesso diretta. Con riserva di adeguata recensione, segnalo fin d’ora che il volume tratta di temi di estremo interesse tra storia e politica: della società (se associazione di individui o di famiglie), della sovranità, della politica (se il declino sia della politica o di una politica), di Alessandro Manzoni storico e patriota, che scrive della Rivoluzione Francese, di Vittorio Emanuele Orlando (il Presidente della Vittoria), giurista e politico, di Francesco Saverio Nitti, teorico della politica, di Sergio Cotta, che di Fisichella è stato il Maestro, studioso di grande tensione morale e filosofica, di Giovanni Sartori, arguto polemista e studioso profondo delle istituzioni e del loro funzionamento, di Augusto Del Noce e della sua analisi del “compromesso storico”, e di Antonio Zanfarino, teorico e storico delle idee politiche, in rapporto al problema del totalitarismo. In copertina una bussola perché, spiega Fisichella nella quarta di copertina, “questo libro si propone come una bussola per orientare su alcuni dei più grandi temi della riflessione politica”.