di Salvatore Sfrecola

Nel bailamme dei gossip televisivi seguiti, prima all’annuncio, poi alla pubblicazione, del libro del secondogenito di Re Carlo III, Harry, Duca di Sussex, “Spare – il minore”, il bravo e sempre compassato corrispondente da Londra del TG1, Marco Varvello, si è lasciato andare ad una affermazione sopra le righe definendo la Monarchia inglese “anacronistica”. Opinione legittima, ovviamente, del tutto opposta a quella che aveva sostenuto poco prima Antonio Caprarica, storico corrispondente RAI che a Londra ha trascorso molti anni, dopo aver svolto le stesse funzioni in Medio Oriente ed a Mosca, che si è detto convinto, ancora una volta, della stabilità dell’assetto costituzionale del Regno Unito intorno alla Corona dei Windsor.

Eppure, Varvello aveva egregiamente descritto i funerali della Regina Elisabetta e reso edotto il pubblico italiano dell’affetto e della stima dei quali godeva la Regina, come espressione di una Istituzione che risale nei secoli e sulle rive del Tamigi si è affermata insieme alle regole della democrazia liberale, quella delineata dal Barone di Montesquieu nel famoso Esprit des Lois, dove sono scandite le regole della separazione dei poteri, quell’equilibrio tra Governo, Parlamento, Magistratura che il politologo francese aveva immaginato osservando quel che accade, appunto, a Londra. Dove il vertice dello Stato è sottratto al potere dei partiti e, nella figura del Sovrano, incarna la storia e l’identità del Regno Unito.

Lo si è visto nei giorni scorsi in occasione delle crisi dei Governi di Boris Johnson e di Liz Truss, cui è seguito l’Esecutivo del Primo Ministro Rishi Sunak. La scelta è stata del Partito Conservatore, cui appartengono i tre, che ha designato il proprio leader, automaticamente posto a Capo del Governo dal Re che prende atto della maggioranza parlamentare e della sua guida. In questo modo il Sovrano inglese risulta un vero e proprio arbitro, collocato in posizione di terzietà a Capo dello Stato. Il confronto politico è tra i partiti e la stabilità del sistema è garantita proprio dalla presenza del Re che assicura, agli occhi dei cittadini britannici, la continuità dello Stato indipendentemente dalla maggioranza presente nella Camera dei Comuni.

Un semplice confronto con l’esperienza italiana fa comprendere il senso della forza della democrazia parlamentare inglese. A Londra il potere è incentrato nei gruppi parlamentari che, grazie ad una legge elettorale maggioritaria basata su collegi uninominali, sono formati da soggetti che riscuotono realmente il consenso dell’elettorato. Me lo ha spiegato bene qualche anno fa un parlamentare inglese, del Partito Liberale, il quale ha insistito sul rapporto diretto che nel collegio s’instaura tra candidato ed elettori e che assicura all’eletto un’assoluta indipendenza dal partito. “Il partito – mi diceva – non mi sposterebbe mai dal collegio e se lo facesse io mi presenterei ugualmente e sarei eletto”.

A Roma i parlamentari, formalmente eletti, sono in realtà “nominati” perché scelti dalle segreterie dei partiti e varcheranno i portoni di Palazzo Madama o di Palazzo Montecitorio solo se alla lista del partito saranno assegnati seggi in numero tale da comprendere la loro posizione di lista. I collegi uninominali somigliano agli inglesi, ma le candidature sono dei partiti (nel senso che sarebbe impossibile un’autocandidatura) e l’ambito territoriale è talmente esteso che non c’è nessun effettivo contatto con l’elettorato.

Altra differenza. L’Italia è una repubblica parlamentare con a Capo dello Stato una personalità eletta dal Parlamento in seduta comune sulla base di una candidatura decisa dai partiti. Il Presidente, dunque, che pure è istituzionalmente al di sopra delle parti, è pur sempre espressione di una maggioranza, della sua cultura politica, delle sue aspettative, compresa quella di ottenere, alla scadenza del mandato, l’elezione di una personalità della stessa maggioranza. Lo si è visto a gennaio 2022 con l’autocandidatura di Mario Draghi che ha immediatamente compattato il Centrosinistra sul nome di Sergio Mattarella che pure aveva manifestato l’intenzione di non essere confermato.

Espressione della figura presidenziale è la sua incombente presenza nel dibattito politico, attuata in vario modo, con discorsi pressoché quotidiani, sempre corposi e argomentati, messaggi di saluto e presenza a manifestazioni di vario genere. 

Di contro a Londra la Regina in 70 anni di Regno, a parte i discorsi in occasione del Natale, ha parlato solo sei volte, sempre per pochissimi minuti, intorno a cinque, con straordinaria efficacia e riscontro mondiale, come quando in piena pandemia da Covid-19, ha concluso con un “ci rivedremo ancora” che era un inno alla speranza. Anche il discorso del padre, Re Giorgio VI, divento famoso anche per un’eccellente pellicola cinematografica, “Il discorso del Re”, pur occasionato da un evento drammatico, l’entrata in guerra contro la Germania Nazista, è stato di soli nove minuti.

Sempre a dimostrazione che la politica la fanno Governo e Parlamento.

Tutto questo per dire che, quando le istituzioni entrano nel cuore e nelle menti, come nel Regno Unito nel quale il Sovrano si identifica nella storia e nell’identità dei popoli che ne fanno parte (significativo che l’attuale Primo Ministro sia di origine indiana e di religione Indù), sembra naturale che la vita dello stato proceda in tal modo, con i suoi rituali che non vanno mai trascurati perché la gente ha bisogno anche di identificare il potere attraverso le forme che assume nel tempo, la corona e lo scettro del Re, la toga dei magistrati, il colbacco delle guardie, gli alamari dei reggimenti storici, come, del resto il camice bianco dei medici.

Queste istituzioni a volte sembrano scontate e possono apparire “anacronistiche” a Marco Varvello. Ma è certo che gli inglesi farebbero a cambio con la democrazia parlamentare all’italiana? Che preferirebbero un Presidente della Repubblica naturalmente loquace (è comunque un politico) ad un Re sobrio ed un governo che entra in carica almeno dopo un mese dalle elezioni legislative anziché il giorno dopo?

Il futuro della Monarchia inglese sta nelle risposte che i cittadini di quel grande stato darebbero ai quesiti appena formulati.