di Salvatore Sfrecola

È vero. Non può essere solamente il 27 gennaio, nella “Giornata del Ricordo”, l’occasione per non dimenticare, per tenere a mente la tragedia del XX secolo, una delle più grandi nella storia dell’Umanità, improntata ad una follia criminale che stenteremmo a credere se non avessimo documenti e testimonianze viventi di fronte ai quali restiamo atterriti.

Libri, racconti, film ci immergono in una tragedia fatta di tante tragedie, quanti sono stati gli uomini e le donne che l’hanno vissuta, sofferenze atroci nelle quali la mancanza di umanità degli aguzzini nazisti ha fatto emergere eroismi e pietà straordinari. Tanto che ricordarne uno sembra di fare torto agli altri. Eppure, ognuno li rappresenta tutti. Come il caso di Mafalda di Savoia, figlia di Vittorio Emanuele III e di Elena del Montenegro, i Sovrani d’Italia, la Principessa bella e gentile, generosa, briosa e mite, intelligente e colta, sposa e madre esemplare, sempre pronta a gesti di carità, della quale, prima di leggerne sui libri, ne ho il ricordo dalle parole di mia madre e da alcune foto sbiadite che conservo in un album. Un tempo e un luogo.

Il tempo, il luglio del 1943, un mese cruciale in un’Italia devastata dai bombardamenti delle nostre città. Neanche Roma sarà risparmiata quel 19 luglio quando, poco dopo le 11, le fortezze volanti scatenano l’inferno sullo scalo di San Lorenzo come la Capitale non aveva conosciuto.

Il luogo, il Terminillo, la “Montagna dei romani”, come amava chiamarla la propaganda del regime che indulgeva sull’immagine del Duce sciatore a torso nudo sulle piste innevate. La vicinanza alla Capitale, in effetti, aveva presto eletto quella montagna a sede delle vacanze della società bene. Ed è lì, nell’Albergo “Roma”, sul piazzale di Pian de’ Valli, che Mafalda di Savoia, era andata per qualche giorno, lontano dall’afa della città, tra le faggete che, a poco più di 1600 metri, testimoniano di un’aria pura e rallegrano la vista. L’accompagnavano i figli Elisabetta ed Otto.

E qui s’inserisce un ricordo familiare. Anche mia madre, Anna Maria, ed io, di venti mesi, eravamo ospiti dell’Albergo Roma. Avevamo lasciato la città dove le condizioni di vita diventavano ogni giorno più difficili. Gli approvvigionamenti di generi alimentari erano sempre più scarsi e la tessera annonaria non consentiva un’adeguata alimentazione dell’intera famiglia. “In pratica mangiavi solo tu”, mi ha ripetuto più volte mia madre. Così, era stato deciso che lei ed io lasciassimo la città per il Terminillo, ospiti della zia Lena (Maddalena), figlia dei proprietari dell’albergo Roma. Mio padre sarebbe rimasto a Roma, vincolato dal suo impegno di funzionario del Ministero delle finanze.

Mia madre ha continuato negli anni a ricordare della Principessa, ammirata per il garbo che aveva con tutti e per la sua attenzione materna. Infatti, pur avendo una cameriera e, ovviamente, la disponibilità piena e entusiasta del personale e dei proprietari dell’albergo, si recava personalmente in cucina per seguire la preparazione dei pasti per i suoi figlioli. Le foto ritraggono me che guido una automobilina a pedali con il principino Otto, quasi mio coetaneo, che cerca di impossessarsi del mezzo e la Principessina Elisabetta che assiste sorridente. Scene di ordinaria serenità sull’orlo dell’immane tragedia che di lì a poco avrebbe portato la Principessa in un campo di concentramento nazista a morire di stenti.

Eravamo alla vigilia del 25 luglio, quando il Gran Consiglio del Fascismo, a maggioranza, nella consapevolezza della guerra perduta, aveva deliberato di restituire al Re Vittorio Emanuele III i poteri sovrani e costituzionali. Era la fine del Fascismo resa palese dalla destituzione di Benito Mussolini. E, di seguito, dalla successiva pace separata con gli anglo americani, annunciata l’8 settembre con un seguito di difficoltà d’ogni genere per la massiccia presenza di truppe tedesche in Italia, aizzate da Hitler contro i “traditori”, in primo luogo il Re che si era staccato dall’alleanza e che, nel frattempo, per assicurare continuità allo Stato ed un minimo di coordinamento nelle aree occupate da americani ed inglesi, si era trasferito con il Governo a Brindisi.

In quei giorni, appena tornato da Berlino, dove aveva incontrato Hitler, Re Boris III di Bulgaria, marito di Giovanna di Savoia, era in fin di vita. Il sospetto è che il dittatore tedesco l’abbia fatto avvelenare. Mafalda si precipita a Sofia dalla sorella e resta per i funerali del cognato. Non al corrente dei pericoli, Mafalda viene a sapere dell’armistizio nel corso del suo viaggio di ritorno quando, alla stazione ferroviaria di Sinaja, in piena notte, alle 3, viene informata dalla regina Elena di Romania, che aveva fatto fermare appositamente il treno e aveva tentato invano di farla desistere dal rientro in Italia.

Mafalda è smarrita, disorientata ma decide di rientrare a Roma per ricongiungersi con i figli e la famiglia, incurante dei rischi. S’illude che la sua condizione di principessa tedesca, moglie di un generale tedesco, il Principe Filippo d’Assia, la metta al riparo dai pericoli. A Budapest, con l’ausilio dell’Ambasciata italiana, l’11 settembre, lasciato il treno, la principessa prende un aereo con destinazione Bari. Ma l’aereo fa scalo a Pescara e la principessa alloggia a Chieti per qualche giorno per poi riprendere il viaggio per Roma che raggiunge il 22 settembre dove può riabbracciare i figli che erano stati accolti in Vaticano da Monsignor Montini, il futuro papa Paolo VI, escluso il maggiore, Maurizio, che era in Germania. Sarebbe potuta rimanere anche lei al sicuro in Vaticano, ma il 23 mattina si reca all’Ambasciata tedesca invitata con la scusa di rispondere ad una telefonata che il marito le avrebbe fatto da Kassel in Germania. Era un tranello. In realtà Filippo d’Assia era già stato arrestato e rinchiuso nel campo di concentramento di Flossenbürg. Mafalda viene imbarcata su un aereo con destinazione Monaco di Baviera, poi è a Berlino, infine deportata nel lager di Buchenwald, rinchiusa nella baracca n. 15 sotto il falso nome di “Frau von Weber”, anche se la voce della sua vera identità si sparge velocemente. La baracca è una di quelle per i prigionieri politici ai quali è riservato il vitto dell’esercito. Quando può Mafalda dona cibo e buoni per le sigarette agli italiani del campo.

Nel 1944 i bombardamenti in Germania si intensificano, e il 24 agosto tocca a Weimar e Buchenwald. Una bomba colpisce la baracca n. 15. Mafalda rimane gravemente ferita ad un braccio che il 26 agosto, sviluppatasi la cancrena, le viene amputato. Abbandonata, muore dissanguata. Le sue ultime parole sono per i compagni di sventura: “Italiani, io muoio, ricordatemi non come una principessa ma come una vostra sorella italiana”.

È opinione del dottor Fausto Pecorari, radiologo internato a Buchenwald, che Mafalda sia stata intenzionalmente operata in ritardo, per provocarne la morte. Il metodo delle operazioni esageratamente lunghe o ritardate era già stato applicato a Buchenwald ed eseguito sempre dalle SS su alte personalità di cui si desiderava sbarazzarsi.

Grazie all’intervento del prete boemo del campo, padre Joseph Tyll, il corpo della principessa non viene cremato, ma messo in una bara di legno e seppellito in una fossa comune con la dicitura: «262 eine unbekannte Frau» (“una donna sconosciuta”).

Trascorsi alcuni mesi, sette italiani, Corrado Magnani, Antonio Mitrano, Erasmo Pasciuto, Colaruotolo, Antonio Ruggiero, Apostolo Fusco e Giosuè Avallone, già appartenenti alla regia marina, tutti originari di Gaeta, decisero di recarsi al campo di concentramento di Buchenwald per mettersi alla ricerca della principessa. Trovarono la sua bara e si tassarono per apporvi una lapide identificativa.

Mafalda di Savoia riposa oggi nel piccolo cimitero degli Assia, nel castello di Kronberg im Taunus, vicino a Francoforte sul Meno.

La televisione ha ricordato Mafalda di Savoia con una miniserie diretta da Maurizio Zaccari, “Il coraggio di una principessa” tratta dal libro della storica Cristina Siccardi, “Mafalda di Savoia. Dalla reggia al lager di Buchenwald” (Paoline Editoriale Libri, 1999; 2020: quinta edizione), con una nota introduttiva del Principe Enrico d’Assia, secondogenito della Principessa.

Il ricordo è quello di una donna che, sin da ragazza, e per tutta la vita, mostra grande coraggio e forza d’animo fuori dal comune nell’affrontare gli ostacoli. Quando poco più che ventenne incontra il Principe Filippo d’Assia, il grande amore della sua vita, Mafalda riesce a sposarlo superando l’opposizione della sua famiglia, i Savoia, di Mussolini e del Vaticano, poiché Filippo d’Assia era di fede protestante e lei cattolica. Negli anni successivi, pur essendo divenuta una principessa tedesca, Mafalda non nasconde la sua avversità ad Hitler e al suo regime. E riesce anche a far cambiare opinione politica al marito.