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di Salvatore Sfrecola

Quella che è andata in onda questa mattina nelle strade di Londra è la festa di un popolo, della sua storia, della sua identità culturale e spirituale. Di un popolo che è parte di una comunità internazionale, il Commonwealth (letteralmente “benessere comune”), che, nata intorno alla Corona inglese, oggi raggruppa 56 stati indipendenti con oltre due miliardi di persone. L’occasione della festa l’incoronazione di Re Carlo III, Sovrano del Regno Unito di Gran Bretagna e dell’Irlanda del Nord, che, succeduto alla mamma, la Regina Elisabetta II, era già divenuto Re (“il Re è morto viva il Re”). Con lui la consorte, la Regina Camilla.

La cerimonia è stata seguita da centinaia di milioni di spettatori collegati da tutto il mondo, e stampa e televisioni ne hanno dato, fin dalla vigilia, diverse interpretazioni a seconda delle conoscenze e delle sensibilità dei singoli giornalisti. Più d’uno ha dimostrato di non saper andare oltre l’aspetto esteriore, già dal ricevimento di gala degli illustri ospiti, le teste coronate, le famiglie regnanti e non, i capi di stato i primi ministri e le massime autorità della terra. L’attenzione è stata attratta dalle uniformi di gala, dalle tiare di regine e principesse, gioielli preziosi confezionati nel corso dei secoli. E poi le immagini si sono soffermate sulla imponente sfilata delle Guardie del Re e delle altre rappresentanze delle Forze Armate, sul corteo reale, sulla carrozza dorata scortata dai cavalieri, fino ai paramenti indossati dal Re che già avevano rivestito i suoi predecessori.

La cerimonia, organizzata dal Duca di Norfolk, in quanto Earl Marshal (Conte Maresciallo d’Inghilterra), è quella di sempre, con qualche sprazzo di modernità e qualche semplificazione voluta proprio dal Re. Al centro, la solenne incoronazione nel corso della quale l’Arcivescovo di Canterbury, il vescovo più importante della Chiesa anglicana, della quale è capo il monarca stesso, ha posto sul capo di Re Carlo la corona di San Edoardo, all’interno di Westminster Abbey, seduto sulla “Coronation chair”, la sedia sulla quale, dal XIV secolo, si sono seduti i sovrani inglesi. Sotto il sedile la sacra Pietra del Destino in arenaria rossa, rubata da Edoardo I durante l’invasione inglese della Scozia nel 1296.

Conclusa la cerimonia, il corteo regale è rientrato a Buckingham Palace lungo un percorso animato da una folla multicolore e multietnica che si era costituita dalle ore precedenti con i fedelissimi accampati a sfidare i disagi della permanenza e della pioggia che non poteva mancare.

È facile per un osservatore superficiale dire che a Londra è andato in scena folclore, tradizioni formali che inevitabilmente qualcuno associa ad una Monarchia della quale non è sempre agevole comprendere il ruolo, considerato che il Re regna ma non governa, una formula propria delle monarchie parlamentari nelle quali il sovrano svolge una funzione arbitrale che assicura la presenza, al vertice dello stato, di una personalità che non è coinvolta negli interessi di potere dei partiti. Infatti, il Re non interviene mai nel dibattito politico limitandosi a brevi discorsi in occasioni speciali. Giorgio VI, il nonno di Carlo, in 9 minuti chiamò i sudditi alla guerra contro l’aggressione nazista, Elisabetta II in 4 minuti, vestita di verde, il colore della speranza, richiamò, gli inglesi all’impegno nella lotta al covid-19 perché reagissero con la stessa determinazione che li aveva caratterizzati in altri momenti della storia, concludendo con un beneaugurante “ci incontreremo ancora”.

È la forza del governo inglese, è la forza di un popolo. Ed a chi sosterrà che l’incoronazione di Re Carlo III è stata una sorta di antica fiaba slegata dalla realtà dei tempi nostri, dico che, a ben vedere, il sovrano inglese garantisce con la sua presenza quel sistema di pesi e contrappesi che caratterizzano il sistema costituzionale inglese dal 1215 quando, a seguito di un patto tra il sovrano e i comuni, i contribuenti, è stata stabilita la regola fondamentale della moderna democrazia secondo la quale il popolo autorizza il sovrano, cioè il governo, a prelevare le imposte e pretende che sia rendicontato quanto speso. Tutto semplice a dirsi, ma sulle rive del Tamigi, dove Charles Louis de Secondat barone di Montesquieu ha studiato come funziona il rapporto tra parlamento governo e sovrano, si attua una forma di democrazia nella quale la sovranità effettivamente appartiene al popolo che la esercita attraverso la Camera dei comuni. Il dialogo è tra la maggioranza parlamentare che esprime il Primo Ministro, quale leader del partito che ha ottenuto il maggior numero di parlamentari, e l’opposizione alla quale è riconosciuto uno speciale statuto, un sistema che rappresenta, come insegna l’esperienza, una forma di governabilità certa, mentre il sovrano si tiene fuori, non rappresenta i partiti, non interviene nelle responsabilità dell’esecutivo. I lettori ricorderanno che la preannunciata visita del Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyn al Re non si è poi tenuta. Le questioni politiche sono di competenza del Governo che ne risponde dinanzi al Parlamento. Noi che siamo abituati ai plurimi interventi dei Presidenti della Repubblica che spesso cercano di condizionare il governo quando non è dello stesso “colore” della maggioranza che li ha eletti. Si chiama “moral suasion”, un’espressione ipocrita per coprire un’interferenza che a Londra sarebbe inammissibile.

Da ultimo, poiché alcuni giornali italiani hanno indicato il costo dell’incoronazione per il bilancio dello stato va segnalato l’indotto turistico straordinario, alberghi, ristoranti, musei, venditori di gadget e tutto quanto si accompagna alla presenza di visitatori. Così a fronte del costo dell’organizzazione dell’evento, in particolare per le misure di sicurezza attuate, stimato in poco più di 100 milioni di sterline, Antonio Caprarica su La7 ha indicato in oltre un miliardo e mezzo l’indotto che ha interessato vasti settori del commercio che qualcuno ha indicato in oltre tre miliardi. Non solamente in questi giorni, perché valutazioni autorevoli assegnano alla presenza della Monarchia il contributo di due punti al PIL inglese. Non male.