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di Salvatore Sfrecola

(tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

Il giorno nel quale si festeggiano insieme l’Unità d’Italia e le Forze Armate suggerisce alcune considerazioni di fondo. La data è quella della conclusione della Prima Guerra Mondiale, per gli italiani la “Grande Guerra” (1915-1918), quella che ha completato l’unità nazionale, come l’avevano immaginata ed auspicata le migliori menti del Risorgimento, con Trieste e Trento annessi alla Madrepatria. Fu subito festa delle Forze Armate, festa di popolo perché i soldati i armi che hanno combattuto quella guerra erano italiani che, per la prima volta, combattevano fianco a fianco, dopo che per secoli “calpesti, derisi” avevano combattuto tra loro agli ordini di ottusi signorotti e capitani del popolo, in realtà per gli interessi di potenze straniere, così mortificando il senso di appartenenza. È facile cadere nella retorica nel ricordare quegli eventi, tra squilli di tromba, canti popolari e sventolio di bandiere, nel risentire il Bollettino della Vittoria diramato dal Comando Supremo alle 12.00 di quel 4 novembre 1918: La guerra contro l’Austria-Ungheria che, sotto l’alta guida di S.M. il Re, duce supremo, l’Esercito Italiano, inferiore per numero e per mezzi, iniziò il 24 Maggio 1915 e con fede incrollabile e tenace valore condusse ininterrotta ed asprissima per 41 mesi è vinta. E poi la descrizione della travolgente avanzata delle nostre armate. Fu davvero una guerra di popolo. E se l’Esercito, magna pars in quella guerra che giorno dopo giorno andava configurandosi come tutta diversa da quelle che avevamo conosciuto nell’800, evoca il popolo, questo, a sua volta, evoca la Patria, la terra dei padri. Un po’ di retorica, a volte, non guasta, dà corpo, esalta gli ideali più razionali, quelli messi a punto con il concorso di filosofi, politologi, storici. Questo spirito di condivisione dei valori comuni, anche nella distinzione delle scelte politiche, ha un grande valore, favorisce l’abbandono degli egoismi di parte in funzione del perseguimento degli interessi comunitari specialmente nei momenti di emergenza, come nel caso presente, nel quale una diffusa infezione virale esige misure drastiche di limitazione delle libertà individuali, anche di lavoro ed economiche, ma nella prospettiva del superamento dell’emergenza e della ripresa economica e sociale. Se questo è vero, se Forze Armate sono il popolo in divisa e se il popolo è Patria è stato un grave errore l’aver soppresso questa festa significativa che non ha mai avuto un sapore nostalgico del nazionalismo aggressivo. I cittadini, soprattutto i ragazzi, che visitavano negli anni scorsi le caserme, le base navali e aeroportuali erano affascinati da carri armati, incrociatori, aerei ed elicotteri ma non esaltavano la guerra che, sappiamo, “l’Italia ripudia… come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali” . Anche perché vedevano nelle Forze Armate quelle strutture dello Stato efficienti che aiutavano i terremotati e gli alluvionati ed oggi, nella condizione di lotta al virus, sarebbero chiamati ad ammirare, sia pure a distanza di sicurezza, alcune delle tante strutture allestite dalla Sanità Militare, compreso l’Ospedale degli Alpini e capire che le Forze Armate sono lo Stato e la Patria. Il 4 novembre è una festività soppressa, nonostante il suo significato unificante e non divisivo, e qui emerge la modestia culturale della classe politica, tutta a partire dal 1946, la quale non si considera erede del movimento nazionale che ha unificato l’Italia ad opera di uomini di straordinario impegno politico e non riesce a percepire il valore democratico del popolo in divisa. È una grave mancanza di valori identitari che darebbero ai giovani il senso di un impegno nella società, professionale e politico, nel senso più nobile di un servizio alla comunità. Del resto la scuola, dove si coltivano cultura e insegnamenti professionali, è la cenerentola nel bilancio dello Stato, da anni.Quanti errori hanno commesso i nostri politici, soprattutto allontanando dalla vita pubblica coloro che avrebbero la possibilità di contribuire allo sviluppo della Nazione. Si sono erti in casta autoreferenziale per conquistare e mantenere il potere spesso lontano dalla gente comune della quale non comprendono i problemi, perché loro non ne hanno, non devono gestire attività imprenditoriali o commerciali bloccate mentre altrove, dalla Germania alla Francia agli Stati Uniti i loro colleghi continuano a produrre ed a commerciare, non devono preoccuparsi della clientela degli alberghi, dei ristoranti e dei bar che, privati dei turisti italiani e stranieri, stentano a sopravvivere. Non sentono il dolore delle famiglie, il disagio degli studenti e neppure colgono il pericolo di una protesta che dilaga e che potrebbe infiammare ancor di più le piazze delle nostre città. Sono lontani, non sanno e non studiano, come ha dimostrato il dibattito parlamentare alla Camera ed al Senato sulle dichiarazioni del Presidente del Consiglio. Un senso di pena per la mancanza di idee per la ripetizione di slogan e luoghi comuni, mentre Giuseppe Conte affermava che le misure di contenimento per gli anziani erano preordinate a metterli al riparo dal contagio, gli anziani che sono stati “protagonisti della ricostruzione e del miracolo economico”. Non sa far di conto il Premier Conte, quei protagonisti di un momento felice della nostra storia dopo le distruzioni della Seconda Guerra Mondiale operarono negli anni ‘50-’60. Ammesso che avessero tra i 40 e i 60 anni, oggi il più giovane ve avrebbe almeno 100!