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di Salvatore Sfrecola

I pregiudizi sono difficili da sradicare. Si servono spesso di slogan e di luoghi comuni che fa comodo ripetere pedissequamente da chi è avvolto dalla pigrizia e non intende fare un minimo sforzo per riflettere ed eventualmente correggere una precedente informazione o un giudizio magari recepito da altri.

È una riflessione alla quale mi capita di ricorrere spesso a proposito di vicende storiche e di personaggi che ne sono stati protagonisti.

Così La Vallesusa del 9 marzo scrive che “due importanti anniversari si ricordano in Casa Savoia nel 2023. Il primo è rappresentato dai 150 anni dalla nascita di Elena del Montenegro, regina consorte di quello che sarebbe diventato re Vittorio Emanuele III, mentre il secondo ricorda i 40 anni dalla morte del “Re di Maggio”, Umberto II, ultimo sovrano d’Italia, cacciato dal referendum del 2 giugno 1946, quando gli italiani scelsero di darsi la forma istituzionale di una Repubblica.

Entrambe queste importanti figure, tutte e due morte in esilio, sono ricordate in questo periodo da una mostra appositamente allestita negli spazi della Palazzina di Caccia di Stupinigi, appartenente all’Ordine Mauriziano. L’esposizione s’intitola “Elena, Regina di Carità e di Pace”, rimando esplicito alla figura della madre di Umberto II.

E proprio in riferimento a quest’ultimo va segnalato un curioso carteggio che vide protagonista il monarca in esilio e una allora ragazzina torinese che oggi vive a Coazze: Franca Leporati. La giovanissima Franca, infatti, negli anni Settanta, scrisse un’accorata lettera all’ex re per manifestargli la sua vicinanza e il suo affetto”.

Perché ho scritto di pregiudizi. Perché, quanto ad Elena di Savoia, Regina d’Italia, non “Regina consorte”, espressione forse presa a prestito acriticamente da qualche tabloid britannico, sarebbe stato necessario, per completezza d’informazione, ricordare che il 15 aprile 1937 Papa Pio XI le conferì la Rosa d’oro della Cristianità, la più importante onorificenza per una donna da parte della Chiesa cattolica, mentre, alla sua morte, il Papa Pio XII la definì “Signora della carità benefica”. E la Chiesa la riconosce “serva di Dio”.

La carità cristiana, virtù tra le più importanti, la Regina Elena l’aveva manifestata in altre occasioni, costantemente, a Messina ed a Reggio Calabria, ad esempio, in occasione del devastante terremoto del 1908, tanto che, negli anni scorsi, è stato eretto in sua memoria e riconoscenza un monumento proprio nella città siciliana. Ancora Elena di Savoia seppe esercitare la sua propensione alla carità durante la Prima Guerra Mondiale quando volle trasformare il Palazzo del Quirinale nell’ospedale militare n. 1, dove furono ricoverati feriti e mutilati provenienti dai fronti di guerra. E successivamente, in esilio, continuò, con le poche risorse delle quali disponeva, ad elargire aiuti a chi si rivolgeva a lei.

Non sarebbe stato difficile acquisire elementi sullo spirito caritatevole della Regina, una virtù sempre apprezzata, quanto poco praticata dalle persone di potere.

Quanto al Re “di maggio”, che vuole indicare, con espressione dall’evidente senso dispregiativo, la figura dell’ultimo Sovrano, anche qui una riflessione sine ira ac studio, come si deve richiedere a tutte le persone di buona volontà, avrebbe dovuto consigliare di omettere quell’espressione, un po’ volgare, usata dalla propaganda socialcomunista e, soprattutto, dai repubblichini di Salò, nel corso della campagna elettorale in vista del referendum del 2 giugno 1946, considerato che Umberto di Savoia, nella veste di Luogotenente generale del Regno, aveva di fatto regnato per due anni nei quali era stato pesantemente pressato dai partiti repubblicani che volevano evitare che la sua figura assumesse maggiore popolarità che facevano intravedere le folle che lo acclamavano ovunque nelle sue visite alle città martoriate dalla guerra, cittadini che evidentemente distinguevano la sua figura da quella di coloro che avevano gettato l’Italia nel baratro di una guerra, a fianco della Germania nazista, che non avevamo alcun interesse a fare, noi Paese mediterraneo con interessi sull’altra sponda, a partire dalla Libia, per non dire di Eritrea, Etiopia e Somalia che potevamo rifornire esclusivamente via mare. Infatti, nel mare dominato dalle flotte inglese e francese, perdemmo rapidamente ogni collegamento con quei territori già tra il 1940 ed il 1941.

Ebbene, da Luogotenente e poi da Re Umberto fu ostacolato in tutti i modi. Gli fu perfino impedito dal Ministro della Giustizia, Palmiro Togliatti, di varare un’amnistia secondo una consuetudine che, ovunque nel mondo, accompagna l’ascesa al trono di un nuovo Re.

Infine, quanto al Re “cacciato” dal referendum, anche a prendere per buoni, cosa che nessuno ormai crede, i risultati del voto, è certo che quasi la metà degli italiani, tra quanti avevano potuto votare, pur nelle condizioni di intimidazioni e violenze che si sono registrate in alcune regioni del Nord, ha scelto la Monarchia. Comunque troppo poco perché, sono parole di Re Umberto, “la Repubblica si può reggere con il 51 per cento, la Monarchia no”. La Monarchia è la storia di una Nazione. O è assolutamente maggioritaria o non è.

Nel voto il governo, a maggioranza repubblicana, volle nella scheda elettorale simboli che possono aver determinato degli equivoci nei votanti: per la Repubblica (due rami di quercia e di alloro attorno ad una testa turrita di donna), per la Monarchia (una corona sovrapposta allo stemma di Savoia). Come era facile prevedere, l’effige muliebre sormontata dalla torre – scambiata con un ornamento regale – confuse gli strati meno accorti della popolazione, che videro nel simbolo l’immagine della regina e credettero di votare il Re segnando una croce a favore della Repubblica (la Consulta araldica aveva invano segnalato la necessità di “una figurazione di immediata comprensione per le masse popolari, specie nelle campagne, dove l’analfabetismo è prevalente”), come ricorda Jetti.

Ancora, sommando il numero dei voti per la Repubblica, quale risulta dall’ultimo verbale della Corte di Cassazione, con la cifra dei voti per la Monarchia e con quella dei voti nulli, si raggiunge la somma di circa 25 milioni (24.935 343), una cifra assolutamente impossibile secondo i dati ufficiali dell’Istituto di Statistica, che circa 25 milioni avessero votato. I dati relativi all’entità della popolazione italiana, alla percentuale dei maggiori di 21 anni, cioè gli elettori, considerati gli elettori defunti, assenti, inabilitati, impossibili dati i numerosissimi certificati elettorali non consegnati, portano concordemente a stabilire che fra il numero dei voti degli aventi diritto e il numero dei votanti, sulla base delle cifre ufficiali, vi è uno scarto in più i votanti di circa due milioni.

Quanto al criterio con cui fu stabilita la maggioranza si considerarono elettori votanti soltanto quelli in cui voto fu riconosciuto valido, contro il parere del Procuratore Generale della Corte di Cassazione: “non solo la lettera della legge impone di interpretare il termine elettori “votanti” nel senso di elettori che hanno comunque compiuto le operazioni di votazione, non solo i principi del diritto e la nostra tradizione, ma anche soprattutto lo spirito della legge, se la legge mira come è, a costituire precisamente un sistema di garanzie per la formazione della volontà collettiva”.

In proposito alcuni giuristi dell’Ateneo di Padova proposero un ricorso osservando che il decreto luogotenenziale del 16 marzo, con il quale era stato indetto il referendum, si riferiva a “maggioranza degli elettori votanti” non dei voti validi e la cifra degli elettori votanti mancava tra quelle rese note. Ci si era limitati a indicare i voti per la monarchia e i voti per la Repubblica; occorreva una maggioranza qualificata da calcolare tenendo conto anche delle schede bianche e nulle, occorreva cioè, come si dice in gergo elettorale, un quorum. Un successivo decreto del 23 aprile aveva disposto che nelle singole circoscrizioni si procedesse “alla somma dei voti attribuiti alla Repubblica e di quelli attribuiti alla monarchia”.

Passando al senso della votazione, ricordo Indro Montanelli: “di coloro che avevano votato Repubblica, la stragrande maggioranza pochissimi si erano resi conto che, con la monarchia, l’Italia rinnegava il Risorgimento, unico tradizionale mastice della sua unità. Era un mastice che non aveva mai operato a fondo e che aveva alimentato più una retorica che una coscienza nazionale. Ma, scomparso anche quello, il paese era in balia di forze centrifughe che ne facevano temere la decomposizione. Aizzata dai socialcomunisti, la lotta di classe deflagrata con una insolenza violenza proporzionale alla repressione per cui vent’anni l’aveva per vent’anni l’aveva sottoposto al fascismo, mentre il regionalismo, fomentato soprattutto dai democristiani, assumeva, specialmente in Sicilia, gli estremi del separatismo.”

Per chiudere, alla vigilia delle elezioni politiche del 18 Aprile 1948 il Ministro dell’Interno, Mario Scelba, tenne un comizio a Roma, in piazza del popolo, del quale dà notizia La Stampa di Torino che così riferisce le parole del Ministro: “Stavolta non si avranno brogli elettorali, come quelli che si ebbero il 2 giugno. Dallo scrutinio dei risultati di una sezione risultava che tutti avevano votato per la Repubblica. Ma il presidente disse: “Qui c’è un pasticcio senza dubbio. Mia moglie ha detto di avere votato per la monarchia e mia figlia lo stesso. Possono avere detto una bugia, come fanno le donne facilmente; ma il mio voto, per lo meno, ci deve essere. Io ho ben votato per la Monarchia. La mia scheda dove è andate a finire? Così la folla si divertiva”.

E così si spiega il carteggio, definito “curioso” da La Vallesusa, che vide protagonista il Re in esilio e una allora ragazzina torinese che oggi vive a Coazze: Franca Leporati. La giovanissima Franca, infatti, negli anni Settanta, scrisse un’accorata lettera all’ex re per manifestargli la sua vicinanza e il suo affetto. Un sentimento che poggiava sulle ragioni della storia d’Italia, divenuta una, dopo che “fummo da secoli/ calpesti, derisi/ perché non siam popolo/ perché siam divisi”, come recita l’Inno nazionale, per merito dei Re di Casa Savoia che, raccogliendo le istanze dei liberali provenienti da ogni angolo della Penisola, hanno messo in gioco il loro destino politico per scegliere l’Italia unita, dalle Alpi al Lilibeo. Un’avventura iniziata quando il Piccolo Piemonte entrò in guerra contro l’impero più potente dell’epoca, l’Austria-Ungheria. Non ci pensiamo mai quando ascoltiamo la Marcia del Maresciallo Radetzky, il comandante dell’armata austriaca, un mito nel mondo militare di quegli anni.