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di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

Riprendo il tema dei Senatori “a vita”, già oggetto di un mio intervento su La Verità di ieri, segnalando che è mia ferma convinzione che essi non dovrebbero votare la fiducia al Governo in quanto privi di legittimazione popolare. Forse non tutti sanno, infatti, che il Senato del Regno, che era composto da altissime personalità della vita politica, istituzionale e culturale del Paese, “nominate” dal Re, “Camera di garanzia, di riflessione e di revisione – una posizione che politicamente tendeva a mettere l’Assemblea vitalizia in ombra rispetto a quella elettiva” (Vittorio Di Ciolo, Senato, In Enciclopedia del Diritto, vol. XLI, 1166), non dava la fiducia al Governo. Il Senato, spiega Santi Romano (Il Diritto Pubblico Italiano, Giuffrè, Milano, 1988, 133), “non è organo rappresentativo del popolo, com’è invece l’altra Camera” e pertanto solo l’assemblea elettiva si riteneva fosse legittimata, in virtù del voto popolare, ad esprimere tale scelta. Nella Costituzione repubblicana i Senatori a vita, sulla base dell’art. 59, comma 2, sono “nominati” dal Presidente della Repubblica tra i “cittadini che hanno illustrato la Patria per altissimi meriti nel campo sociale, scientifico, artistico e letterario”. La scelta del Presidente della Repubblica non è in alcun modo condizionata da una proposta governativa, in quanto il decreto di nomina è controfirmato dal Presidente del Consiglio dei Ministri ai sensi dell’art. 89, comma 2, della Costituzione. Al contrario, vigente lo Statuto Albertino, il decreto reale di nomina era adottato previa deliberazione del Consiglio dei ministri (art. 1, n. 9, R.D. 25 agosto 1876, n. 3289 e 2 R.D. 14 novembre 1901, n. 466), controfirmato dal Ministro dell’interno e registrato alla Corte dei conti. Dal momento della comunicazione della nomina da parte del Presidente del Senato, ai sensi dell’art. 1, comma 1, del Regolamento, i Senatori a vita acquistano le prerogative della carica e tutti i diritti inerenti alle loro funzioni. Con la conseguenza che, secondo la dottrina (Vittorio Di Ciolo, cit. 1196), una volta immessi nell’esercizio delle loro funzioni, sono equiparati ai senatori elettivi sia sul piano formale che sostanziale, “per cui nessun obbligo, nemmeno di correttezza, incombe quindi sui senatori a vita di astenersi dal voto, anche quando quest’ultimo si riveli decisivo ai fini dell’adozione o reiezione di un provvedimento all’ordine del giorno”. Dissento da questa interpretazione, convinto che le ragioni per le quali i senatori del Regno non davano la fiducia al Governo siano valide anche nell’ordinamento repubblicano in conseguenza della mancanza di una legittimazione popolare che sola può giustificare l’espressione di un consenso ad una “questione di fiducia” posta dal Governo. Ritengo che, pur In assenza di un impedimento formale, personalità che hanno illustrato la Patria per “altissimi meriti” dovrebbero sentire il dovere di non partecipare alle votazioni che hanno ad oggetto la fiducia al governo. Dovrebbe, infatti, essere nelle corde di un personaggio di tale levatura morale una sensibilità istituzionale per la quale è evidente la differenza fra chi è nominato e chi è eletto. Non è un fatto formale. È una delle regole fondamentali della democrazia rappresentativa, nella quale la sovranità appartiene al popolo “che la esercita nelle forme” della Costituzione (art. 1), cioè con il voto.