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LA BATTAGLIA DEL QUIRINALE

di Giuseppe Borgioli

Ci risiamo. Con la puntualità delle piogge autunnali si ripresenta la battaglia del Quirinale. È come un film già visto. Fra tre anni scade il settennale di Sergio Mattarella e le manovre sono già iniziate con tre anni di anticipo, come sempre. Matteo Renzi l’ha confermato autorevolmente dal palco della Leopolda senza mezze parole. Evviva la sincerità. Il governo Conte bis ha visto la luce soprattutto per non lasciare che Matteo Salvini (con i suoi alleati) vincesse le elezioni e mettesse una ipoteca sul successore di Mattarella. Gli ingenui credevano che la massima carica dello stato fosse figura super partes svincolata il più possibile dai giochi politici. Non è così.  Si allineano i primi candidati sostenuti dai rispettivi schieramenti per conquistare la pole position.  Ne vedremo delle belle. Se escludiamo Luigi Einaudi (il primo presidente, che peraltro era dichiaratamente monarchico) le successive dieci elezioni hanno seguito questo copione. I costituenti avevano previsto che per le prime votazioni valesse la regola dei due terzi e che solo dalla quarta votazione in poi fosse sufficiente la maggioranza assoluta. Come diceva Oscar Wilde l’ipocrisia è l’omaggio che il vizio paga alla virtù e l’ipocrisia repubblicana tendeva a configurare la presidenza sul modello del Re secondo lo Statuto Albertino: arbitro della lotta politica senza agganci con i partiti. Lodevole intenzione che non è stata minimamente suffragata dai fatti. Dopo Einaudi iniziarono le dolenti note con Giovanni Gronchi che risultò eletto da una congiura di palazzo con l’esordio dei cosiddetti “franchi tiratori”, i parlamentari che nel segreto dell’urna votavano in difformità dalle direttive dei partiti.  Gronchi che ambiva a passare alla storia come”il De Gaulle Italiano” finì miseramente sotto le ceneri del governo Tambroni da lui sponsorizzato. Seguì Antonio Segni autentico galantuomo che colpito da un ictus provvidenziale per la partitocrazia dovette dimettersi. Fu la volta di Giuseppe Saragat, primo socialista (democratico) alla guida della repubblica, che spese il suo mandato per favorire la nascita del partito socialista unificato con i risultati grotteschi che molti ricordano. Giovanni Leone aveva tutte le carte, noto penalista napoletano cresciuto professionalmente alla scuola di Enrico De Nicola, fu costretto a dimettersi prima della scadenza del suo mandato abbandonato principalmente dal suo partito, la DC, in pasto ad una campagna di stampa senza precedenti. Sandro Pertini doveva ridare lustro alla repubblica ma proprio a lui, al suo incontrollabile e incontrollato contegno, si possono ascrivere le prime prove generali di populismo. Francesco Cossiga tentò di usare la carica di presidente per picconare un sistema partitocratico di cui intravedeva le crepe: anche lui fu indotto, con le buone o con le cattive, a lasciare il seggio prima del tempo canonico. Che dire di Oscar Luigi Scalfaro?  Tutto fuor che insinuare che è stato super partes, non ci ha nemmeno provato. Era stato più corretto come presidente della Camera. Come presidente della repubblica ha riscoperto in sé la vocazione del capo partito, meglio del capocorrente. Carlo Azeglio Ciampi fu portato al Quirinale quasi all’unanimità dalla convinzione che si aprisse un’era nuova e che l’ex governatore della Banca d’Italia avrebbe garantito il rispetto del bipolarismo: non è lecito cambiare maggioranza senza il conforto del voto dei cittadini. Gli sviluppi di questa regola sono sotto gli occhi di tutti.E che dire di Giorgio Napolitano, ù principino come lo chiamavano i compagni della federazione del P.C.I. di Napoli, che ha avuto la soddisfazione della riconferma, seppur temporanea. Giorgio Napolitano meriterebbe un saggio di politologia. Lui è il vero erede intellettuale di Palmiro Togliatti. La dissimulazione – a fin di bene – ha toccato in lui le massime vette. È difficile anche da avversari non provare ammirazione. Sino all’attuale Sergio Mattarella di cui non parliamo se non altro per la buona educazione che vieta di parlare dei presenti. Sarebbe interessante allargare la galleria agli sconfitti, a coloro che il Quirinale si limitarono a sognarlo senza accedervi se non per i ricevimenti e le udienze. Dai precedenti illustri di Carlo Sforza e Cesare Merzagora, dall’eterno secondo dei pronostici Giulio Andreotti al duello interminabile fra Aldo Moro e Amintore Fanfani. Per Aldo Moro la vicenda finì tragicamente. Finì male ma non tragicamente anche per Romano Prodi. Si sa, Romano Prodi è un uomo fortunato e come gli omini di plastica che stanno sul bancone dei bar resta sempre in piedi.