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di Salvatore Sfrecola

( tratto da: www.unsognoitaliano.eu)

L’Amministrazione pubblica italiana ha costantemente meritato la “A” maiuscola. Nella fase di formazione dello Stato unitario e nella ricostruzione del Paese, dopo la prima e la seconda guerra mondiale, ha dimostrato elevata professionalità in tutti i settori, amministrativi e tecnici; il “Genio Civile”, tanto per fare un esempio, ha rapidamente ripristinato le più importanti infrastrutture viarie e ferroviarie danneggiate o rese inservibili dagli eventi bellici. Tuttavia, da alcuni decenni i cittadini e le imprese ne denunciano in tutti i settori una generalizzata inefficienza, oggetto di ricorrenti segnalazioni da parte della stampa, e nulla fanno i governi di apprezzabile ed apprezzato per superare questa situazione, nonostante sia evidente che la politica al governo realizza gli obiettivi indicati nell’indirizzo politico emerso dalle urne e condiviso dalle Camere attraverso l’opera degli apparati amministrativi. Dovrebbe essere, dunque, prima di tutto il Governo a percepire l’esigenza di disporre di un apparato capace di realizzare gli obiettivi delle politiche pubbliche. E i governi in qualche modo sembra ne siano consapevoli. Infatti, fin dal dopoguerra è sempre stato previsto un ufficio della Presidenza del Consiglio, retto da un Ministro senza portafoglio, in vario modo denominato: riforma burocratica, riforma della pubblica amministrazione, semplificazione e quant’altro la fantasia ha consentito di definire. E tuttavia, ancora oggi, pressanti sono le esigenze di semplificazione dei vari procedimenti soprattutto di natura autorizzatoria. Il governo Conte gli ha dedicato un apposito decreto che unanimemente viene ritenuto assolutamente inadeguato. Basti pensare che, per esorcizzare il timore della firma, come si è letto più volte, è stata eliminata la responsabilità per danno erariale nelle fattispecie della “colpa grave” che, come abbiamo spiegato più volte, costituisce una gravissima negligenza e imperizia. Il fatto è che sfugge al Governo, e, quindi, alla politica, che l’Amministrazione pubblica non funziona per colpa della politica, perché è la politica che fa le leggi le quali delimitano attribuzioni e competenze degli uffici ed è la politica che definisce le procedure le quali costituiscono quell’inestricabile groviglio di adempimenti che costituiscono un peso per i cittadini e per le imprese, sconsigliate dall’investire (soprattutto le estere, abituate ad amministrazioni che non solo non frappongono ostacoli ma agevolano chi vuole intraprendere attività di produzione o di commercializzazione di beni). Quelle procedure, viste dall’operatore della P.A. rendono difficile la definizione delle pratiche per l’incertezza delle norme, spesso scritte male quando non incomprensibili. In questo contesto si manifesta il timore di sbagliare.Da qualunque parte affrontiamo il tema dell’Amministrazione incontriamo difficoltà e inefficienze e siccome, come dice un detto popolare, il pesce puzza dalla testa, è evidente che tra le varie disfunzioni, ad esempio riguardanti il reclutamento e la progressione nelle carriere che ha portato in posizioni di responsabilità soggetti assolutamente inadeguati, ce n’è una gravissima che sta scolpita in una norma di legge la quale consente al potere politico di nominare liberamente dirigenti. Senza una selezione, senza concorso, una serie di soggetti vicini alla politica assumono nell’ambito dell’Amministrazione responsabilità dirigenziali particolarmente importanti con un effetto deleterio. In quanto vengono assegnate funzioni rilevanti a soggetti privi di professionalità e di esperienza e perché queste promozioni mortificano i funzionari di carriera, quelli che un tempo si chiamavano direttivi, che nel privato sono i “quadri”, la forza della struttura, diretti da persone inadeguate e perché queste nomine tolgono spazio alle loro legittime aspirazioni. Alla ricerca dei più recenti motivi di disagio si ricorda negli anni 1992-1993 (Governo Amato – Ciampi) la scriteriata privatizzazione del rapporto di pubblico impiego proseguita nel 2001 con quella assurda riforma, fortemente voluta dall’allora Ministro della Funzione pubblica, Franco Bassanini, che, con il sistema dello spoils system, ha inaugurato la stagione della dirigenza sottoposta al politico di turno.

Dopo la riforma della dirigenza attuata con la legge 748/1972, che prevedeva l’accesso con regolari procedure concorsuali aperte a tutti, con regole certe che consentiva ai migliori di raggiungere determinate posizioni di vertice, purtroppo le forze politiche hanno trascurato il merito e la legalità, con l’effetto di determinare un diffuso malcontento tra gli addetti ai lavori, costretti a sopportare macroscopiche ingiustizie. La situazione gravissima si è progressivamente aggravata per il fatto che la norma di riferimento, la quale prevede l’assunzione di estranei con funzioni di dirigente, nata per sopperire ad eventuali, rarissime situazioni di mancanza della specifica professionalità, è diventata, di fatto, un “dirigentificio” di gente spesso senza arte né parte. Ho premesso che la norma avrebbe un senso, perché può accadere che l’Amministrazione abbia bisogno di una professionalità che al suo interno non possiede. Caso rarissimo, tuttavia, perché l’Amministrazione italiana ha tutte le professionalità necessarie. Ha giuristi, economisti, statistici, medici, ingegneri di ogni specialità, civili, navali, aeronautici, per fare qualche esempio. Si tratta, quindi, nel caso in cui un’Amministrazione avesse l’esigenza di una professionalità al momento assente, di acquisire dalla struttura che, invece, la possiede, in comando o in altra forma qualunque di collaborazione, il professionista che occorre. Invece l’art. 19, comma 6, del decreto legislativo n. 165 del 2001 ha creato un meccanismo perverso che consente la nomina di dirigenti anche tratti dalla stessa Amministrazione, un tempo previo un fittizio collocamento fuori ruolo, per apparire estranei, oggi neppure perché la norma è stata integrata dal duo Madia Renzi che ha reso possibile le nomine interne. A leggerlo com’è scritto l’art. 19, comma 6, sembra destinato all’assunzione di candidati al premio Nobel. Infatti, afferma che gli “incarichi sono conferiti, fornendone esplicita motivazione, a persone di particolare e comprovata qualificazione professionale, non rinvenibile nei ruoli dell’Amministrazione, che abbiano svolto attività in organismi ed enti pubblici o privati ovvero aziende pubbliche o private con esperienza acquisita per almeno un quinquennio in funzioni dirigenziali, o che abbiano conseguito una particolare specializzazione professionale, culturale e scientifica desumibile dalla formazione universitaria e postuniversitaria, da pubblicazioni scientifiche e da concrete esperienze di lavoro maturate per almeno un quinquennio, anche presso amministrazioni statali, ivi comprese quelle che conferiscono gli incarichi, in posizioni funzionali previste per l’accesso alla dirigenza, o che provengano dai settori della ricerca, della docenza universitaria, delle magistrature e dei ruoli degli avvocati e procuratori dello Stato”. Cominciamo col dire che il riferimento a magistrati, avvocati e procuratori dello Stato è come uno specchietto per le allodole. Dovrebbero fare come i gamberi, tornare indietro. Mentre le “concrete esperienze di lavoro” riferite alle amministrazioni “che conferiscono gli incarichi” è una palese contraddizione con la prevista assenza di professionalità. La ciliegina sulla torta dell’interesse della politica sta nella durata degli incarichi, che “non può essere inferiore a tre anni né eccedere il termine di cinque anni”. Insomma il dirigente non solo ha ottenuto la nomina ma attende anche la conferma dallo stesso ministro che lo ha nominato, una condizione che lo rende naturalmente “prono” alla volontà politica dalla quale dipende il suo status. Considerato anche che “il trattamento economico può essere integrato da una indennità commisurata alla specifica qualificazione professionale, tenendo conto della temporaneità del rapporto e delle condizioni di mercato relative alle specifiche competenze professionali”. La tanto sbandierata distinzione tra politica e amministrazione, stabilita dall’art. 3 del decreto legislativo n. 29 del 1973, finisce qui. Il politico si è tirato fuori da ogni responsabilità e la scarica sul funzionario che opera sulla base di direttive politico-amministrative. E la politica lo rassicura escludendo che possa essere chiamato a rispondere per “colpa grave” in caso causi un danno al bilancio pubblico. Con buona pace dei Costituenti, i quali avendo previsto che i pubblici dipendenti debbano essere “al servizio esclusivo della Nazione” (art. 98 Cost.), li ritrovano al servizio del politico di turno.