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di Aldo A. Mola

Con chi confina l'Italia oggi? Dovrebbe dirlo il ministro degli Esteri uscente, Angelino Alfano, che però da qui alle elezioni o addirittura al nuovo governo sarà tamquam non esset, come non esistesse (farebbe meglio a dimettersi subito). Dovrebbe precisarlo l'ex ministro degli Esteri e ora presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni.

Ma sappiamo che non è risposta facile. I confini oggi non sono il crinale alpino, studiato da Claudio Susmel in “I confini naturali d'Italia”, la piattaforma continentale né solo gli ideali che costruirono l'unità nazionale tra il 1848 e il 1918. Oggi essi sono tutt'uno con la stabilità di governo di un Paese dalla posizione strategica in un Mediterraneo inquieto mentre incombono altre guerre potenzialmente devastanti.

I confini attuali sono tanto “immateriali” quanto pesantissimi: il debito pubblico opprimente, una fiscalità predatoria da parte di Stato, regioni, province e comuni, che spesso paiono ladruncoli drappeggiati con il carisma della legalità e privilegiano i soprusi ai danni di chi ogni giorno tira la carretta civica.

   L'Italia confina con la Nato per quanto riguarda la Difesa e con l'Unione Europea per le vessazioni che ne subisce, previa cessione di quote ampie di sovranità nazionale (bene fa Antonio Tajani a difendere la priorità del Parlamento Europeo, elettivo, rispetto alla Commissione, “sovraordinata”: da chi?). Confina con l'ONU (una istituzione palesemente equivoca) per gli intralci opposti alla difesa dei suoi spazi da irruzioni di cosiddetti migranti, e magari anche con l'UNESCO che da un canto riconosce la pizza napoletana quale patrimonio dell'umanità e dall'altro nega che la spianata del Tempio di Gerusalemme sia patrimonio del popolo ebraico.

A cospetto del quadro attuale va ricordato quello di ottant'anni addietro, il 1938, l'ultimo nel quale l'Italia fu padrona delle proprie sorti. Spartiacque fu l'annessione dell'Austria da parte della Germania. L'Austria era il residuato bellico della Grande Guerra. Uno staterello con una capitale abnorme, cresciuta quando era centro di un Impero. Tanti palazzi dalle sagome di caserme. Poco a che fare con l'architettura di Vitruvio e Palladio. Come documenta Antonino Zarcone nella biografia del generale Roberto Segre pubblicata dfall'Ufficio Storico dello Stato Maggiore dell'Esercito, dal 1918 Vienna precipitò nell'abisso. Almeno ventimila aristocratiche e borghesi campavano vendendosi ai doviziosi passator cortesi. L'Austria era alla fame più nera. Se la passò peggio l'Ungheria, per breve stagione succuba del regime comunista di Bela Kun. L'Europa centro-orientale fu disegnata a tavolino con i trattati di pace del 1919-1920, fomiti di risentimenti, nazionalismi e nuove guerre. L'Austria rimase nella tenaglia dei pangermanici, che la volevano unita ai tedeschi, e di chi, invece, faceva leva sulla sua identità cattolica.

Dal 1930, appena varata la nuova costituzione, la Felix Austria fu teatro di lotte sanguinose tra partiti e fazioni etoredirette: divenne un protettorato a tempo determinato. Da una parte i nazionalsocialisti di Hitler, che puntavano all'annessione, dall'altra socialdemocratici, cristano-sociali e il principe Starhemberg che contava sul sostegno da parte dell'Italia.

Re Vittorio Emanuele III e il capo del governo, Benito Mussolini, assecondarono i moderati e nel 1930 siglarono un patto di amicizia con Vienna. Nell'aprile 1933 il Presidente austriaco, Engelbert Dolfuss, fu accolto trionfalmente a Roma. L'Italia voleva continuare a confinare con l'Austria. Intuita la pericolosità dell'ascesa del nazismo, Mussolini fece pesanti dichiarazioni antitedesche, non lontane da quelle del liberalsocialista Carlo Rosselli che ammonì: “La guerra viene, la guerra verrà”, deprecò la rassegnazione dei democratici e invocò un intervento militare preventivo per fermarlo prima che fosse troppo tardi. Nel febbraio 1934 in Austria esplose la lotta tra fazioni opposte (sarebbe improprio classificarla “guerra civile”: era tra bande armate dall'estero). Il 25 luglio Dolfuss fu assassinato. D'accordo con il Re, capo delle forze armate, Mussolini dispiegò alcune divisioni in assetto di guerra verso il Brennero e la Carinzia. L'Italia voleva l'indipendenza dell'Austria, ribadita  nell'accordo tripartito tra Roma, Francia e Gran Bretagna, caposaldo della pace europea, nell'incontro tra il duce e il presidente francese Laval (1935) e successivamente in quello italo-franco-britannico a Stresa, l'11 aprile 1935. Però l'Italia fu l'unico Stato a mostrare, arma al piede, di volerne davvero difendere l'integrità. Quell'Austria non aveva nulla a che vedere con l'Impero asburgico, nemico storico dell'unità e dell'indipendenza italiana. Ormai era uno stato-cuscinetto che consentiva a Roma di intessere rapporti diplomatici costruttivi con Ungheria, Cecoslovacchia, Polonia, la Romania di Corneliu Zelea Codreanu (studiato da Carlo Sburlati già demiurgo del Premio Acqui Storia) e la Bulgaria, unita all'Italia anche dal matrimonio del suo zar, Boris III,  con Giovanna di Savoia, quartogenita di Vittorio Emanuele III e della Regina Elena. Come da secoli, la Grande Politica passava anche attraverso unioni personali, che propiziavano canali informativi privilegiati. Ve n’era bisogno mentre l'URSS di Stalin stava vivendo le “grandi purghe”, sintetizzate dalla fucilazione del Maresciallo Tukacevskij e di Bucharin e si preparava a rinviare il confronto armato con la Germania hitleriana.

Lasciando da parte il quadro planetario (contrassegnato da guerre feroci e dai totalitarismi stigmatizzati nel marzo 1937 da papa Pio XI con le encicliche “Mit brennender Sorge” e “Divini Redemptoris”), quello europeo del 1938 era pesantemente condizionato dalla guerra civile in corso in Spagna. Come ha ricordato Edgardo Sogno, in “Due fronti” (ed. LibriLiberal), con prefazione di Sergio Romano, lì l'Italia intervenne per scongiurare il pericolo che l'Unione Sovietica chiudesse l'Europa nella morsa della sua “rivoluzione”. I “rossi” mostrarono il loro fanatismo a cominciare dalla Catalogna, antica sentina di estremismo, con incendio di chiese, profanazione di cadaveri e orrori di vario genere. La Francia aveva un governo di sinistra presieduto da Léon Blum. L'Italia doveva fare da sé.

Dopo un incontro con Hitler a Berchtesgaden il 12 febbraio 1938, il cancelliere austriaco Schuschnigg cedette il potere al filo nazista Seyss-Inquart. Venne indetto un plebiscito per affermare l'Austria “libera e tedesca, indipendente e sociale, cristiana e unita” per il 9 marzo. Ma l'11-13 i tedeschi irruppero. Il 10 aprile un plebiscito confermò a stragrande maggioranza l'Anschluss, l'annessione dell'Austria alla Germania, che non era quella dei massoni Federico II di Prussia, Wolfgang Goethe, di Bismarck e del principe Bulow, ma del massonofago Hitler.

Londra e Parigi, che sulla fine del 1937 avevano fatto approvare le sanzioni della Società delle Nazioni ai danni dell'Italia (18 novembre), dinnanzi all'avanzata d Berlino rimasero in stallo. Roma, isolata, non si mosse. Hitler telegrafò a Mussolini “Non lo dimenticherò mai”.

Per l'Italia la svolta fu fatale. Si trovò a confinare direttamente con il Terzo Reich. A maggio Hitler fu ricevuto a Firenze e a Roma. Mussolini scalpitava perché relegato sempre in seconda fila, un passo indietro rispetto a Vittorio Emanuele III, che dal canto suo non dedicò neppure un rigo a Hitler nell'“Itinerario generale dopo il 1° giugno 1896”, ove annotò invece il viaggio a Tripoli per le grandi manovre, il volo su Gadames (sic) e Giarabub, la visita a Padova e a Venezia per il ventennale del Piave (tema portante del “Calendario Esercito 2018” e di “Non chiamatelo fiume. Dal Grappa al Piave” di Vincenzo Beccia e Federica Dal Forno, ed. Rodorigo).  Nell'“Itinerario” Re Vittorio segnò le tappe della vacanza estiva nelle valli cuneesi sino alla Sagra del Grano a Savigliano e alla salita al Chiot (quota 1657). Il 30 settembre ricevette Mussolini di rientro dalla Conferenza di Monaco di Baviera ove il duce, l'inglese Chamberlain, il francese Daladier e Hitler pattuirono il trasferimento alla Germania dei sudeti (germanofoni nel 1919 incorporati nella Cecoslovacchia). Mussolini (che aveva profuso risorse nella conquista dell'Etiopia e in Spagna) vantò di avere salvato la pace. Il britannico Churchill deplorò invece che tra la vergogna (ovvero la resa a Hitler) e la guerra il governo inglese aveva scelto la vergogna senza scongiurare la guerra, destinata prima o poi a esplodere.

La seconda metà di quel lungo anno registrò in Italia la deriva dalla pubblicazione del Manifesto della razza (14 luglio) alle leggi per la difesa della stirpe, firmate dal re dopo la loro approvazione da parte dei due rami del Parlamento (la Camera dei deputati, ancora apparentemente elettiva, deliberò il suicidio, varando quella dei Fasci e delle Corporazioni). Vittorio Emanuele III non aveva alternative. L'eventuale abdicazione avrebbe scaricato il peso della firma sulle spalle del trentaquattrenne Umberto, che a sua volta sarebbe finito alle strette tra abdicazione (a favore del figlio, di appena un anno) e ascesa della rumoreggiante marea fascio-repubblicana, corriva all'alleanza ideologica con il nazionalsocialismo germanico.

L'annessione dell'Austria alla Germania fu il colpo di clava sulla libertà d'azione dell'Italia, che si trovò a confinare direttamente con Berlino.Vent'anni dopo la Vittoria, il Paese fu chiuso nella morsa tra un alleato preoccupante e un Mediterraneo anglo-francese, ostile. Dalla fine del 1937, prima della caduta della Catalogna, Londra e Parigi avevano intanto riconosciuto il governo spagnolo di Francisco Franco, per sottrarlo all'abbraccio di Roma e Berlino, e chiusero gli occhi dinnanzi alla sistematica repressione degli oppositori. Del resto altrove (a cominciare dall'URSS) accadeva di peggio. In quell'Europa di ferro e di fuoco l'Italia cercò di ampliare i confini politico-militari con l'annessione dell'Albania, per garantirsi le porte dell'Adriatico: contro chi? Era una partita aperta sin dall'accordo di Londra del 26 aprile 1915, quando nel bottino della vittoria il governo Salandra-Sonnino inserì Valona. I confini non sono solo paletti militarmente vigilati, ma aspirazioni secolari, agognate in silenzio e attuabili, in tempo di pace, con strumenti diplomatici, economici, imprenditoriali, finanziari, in funzione di un Progetto che presuppone ed esige unità nazionale. E' il tema dei prossimi mesi, se e quando l'Italia tornerà ad avere un ministro degli Esteri dotato del “quid” indispensabile e all'altezza della sua storia.